6 – LO JISEI – POESIA DELL’ADDIO –

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Poesia di commiato, composta nell’imminenza della morte appositamente perché sia ricordata come l’ultima, e dunque investita di un particolare rilievo.
A seconda dello schema metrico e compositivo che si utilizza, può essere:
jisei no ku (se in forma di Haiku).
– jisei no uta (se in forma di Tanka).

È quindi una poesia scritta (dipinta?) in prossimità di uno dei due momenti inaggirabili della vita, il solo dei due, tra altro, in cui l’uomo abbia già fatto una certa conoscenza profonda del linguaggio.

In realtà, chi comporrà o solo leggerà questi componimenti non troverà solo malinconia, solitudine, paura, ricordi, ma troverà di tutto, spesso anche l’ironia colta poco prima di ributtarsi nel fiume della natura dal quale il corpo è venuto, poco prima di smettere di essere “soggetto“.
(Tra parentesi: verrebbe da soffermarsi su questo “soggetto”: in Occidente, quanto ci interessa la letteratura come “soggettiva”, “confessione”, portatrice di una “visione”? Non è una critica all’Occidente, ma solo una constatazione.)
E ancora oggi in Giappone non è una pratica abbandonata quella degli jisei…anche il regista e sceneggiatore Satoshi Kon ha fatto parlare di sé lasciando il suo jisei quando è morto nel 2010 a 47 anni.

Il punto! Per chi ne vorrà scrivere.

 

Non credo sia acuire la sensibilità – o pensare a una sensibilità acuita – soltanto perché c’è di mezzo quel momento di commiato dalla vita. Se la poesia è legata tanto alla morte quanto alla vita è perché, rinvia continuamente ad entrambe, o per meglio dire è entrambe. Il gesto di scrivere “l’ultima” e riporre il pennello è chiaramente un gesto dell’ambizione, di quell’ambizione che è spesso travisata, ma che resta il motore immobile di ogni esistenza umana.

L’innesto del buddhismo, che in Giappone penetra verso il sesto secolo, costituirà un flusso fondamentale per lo sviluppo di questa pratica poetica così intima con il sentimento di transitorietà e trascolorazione della vita e pure con un certo languore, atteggiamento che chi frequenta la poesia giapponese, anche in traduzione, ha probabilmente ben presente.
In essa è spesso presente il Mono no aware 物の哀che è letteralmente “ il senso delle cose”, sostanziato di empatia e nostalgia, che definisce questo sguardo languido di cui è pervasa tutta la letteratura giapponese degli inizi, incardinata sull’idea che solo la consapevolezza dell’impermanenza, e dunque dell’imminenza della perdita, possa liberare l’occhio dal velo opaco indotto dall’abitudine e renderlo finalmente limpido e profondo, capace di svelare la bellezza in tutto il suo fulgore.
Il campionario di immagini allora può andare a sovrapporsi con quello che già conosciamo dagli haiku e ci si potrà esercitare a riconoscere il kigo, la parola che colloca la poesia in un dato momento dell’anno, all’interno dei cicli della natura. In questo senso jisei è spesso poesia di commiato dal vedere e dalla vista.

Qualche esempio? Ki no Tsurayuki nel 945:
nb: sono traduzioni quindi non rispettano la metrica dei Tanka o degli Haiku.

Come la luna
che si compone sull’acqua
nella conca delle mani,
questo mondo non sappiamo
se sia o se non sia.

Come ricordato, i motivi e i toni sono tanti, e con un salto al 1781 leggiamo Gessen Zenne che scrive:

Alla sbarra
del giudizio finale
nemmeno provo
a occultare le colpe.
L’estremo
dei miei crimini
sarà assassinare
il Re degli Inferi.

Oppure questo jisei di Itō Enryō :

Acqua chiara d’autunno,
per smaltire la scimmia
di questa vita.

Acque diverse infine in questo esempio di Dazai Osamu, autore del bel libro Il sole si spegne, che per prendere commiato scrive:

Acque opache
dove nemmeno il glicine
specchia più i grappoli,
di questo lago battuto
dalla tempesta.

Preciso che Jisei, significa ” l’ultima parola della vita “, ed è un’usanza che risale al Giappone feudale del periodo a cavallo tra il 15° e il 16° secolo, Sengoku Jidai, l’età del paese in guerra. In quest’epoca di scontri, i samurai non potevano sapere se il giorno seguente sarebbero stati ancora in vita, così molti scrivevano in anticipo i loro ultimi versi.
La forma che in genere prevaleva nello scriverlo era quella del tanka, quindi quella dello jisei no utapiù raramente quella dell’haiku cioè lo jisei no ku, anche se in occidente è più conosciuto con questo ultimo termine.

 

Fonte: Documento Web di Ornella Civardi con l’aggiunta di alcune mie precisazioni.

 

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