Stefania Balsamo

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Tra montagne e mare ... il mio luogo natio fu reso ostile da una sorta di maledizione ... fu una tra le più famose baronesse d'Italia, trafitta a morte dal padre, che prima di spirare, avrebbe lanciato un'anatema all'indirizzo dell'intera popolazione. Così, quel suo ultimo grido disperato: "cani carinisi" ... sembra aleggiare ancora oggi  tra la sua gente, rappresentandone quasi l'essenza. In questo luogo non propriamente "ospitale", si inserisce la mia storia e ancor prima della mia, quella della mia famiglia.

Stefania Balsamo

Sono Stefania, ho 54 anni e vivo a Carini, in provincia di Palermo. Nella mia apparente staticità, sono in continuo divenire, per cui quello che penso oggi potrebbe essere l'opposto di quello che pensavo ieri. Odio la burocrazia e tutto quello che vi ruota attorno. Trovo che ammorbi l'esistenza e sottragga energie preziose da poter spendere meglio nell'arco di quella vita estremamente breve, che ci è concessa. Nonostante il mio mezzo secolo di esistenza sto ancora cercando il "mio posto nel mondo". forse lo cerco però nel luogo sbagliato o forse sono sbagliata io... non so... Intanto tra un'incombenza e l'altra scrivo, principalmente per me stessa. Mio padre ereditò dai suoi villici avi, l’amore per la terra che nutrì dentro di sé fino alla fine dei suoi giorni e fino a quando le sue condizioni di salute glielo consentirono, trascorse le sue più belle giornate nel grande giardino dietro casa. Da sempre quel grande giardino è stato una costante nella vita di tutti noi e la sua vista dalla mia casa, a fianco di quella dove son nata e cresciuta, è stata ed è per me oltre che una consolazione, anche una fonte d'ispirazione, come pure lo sono stati i racconti di mio padre.  Mi apprestai quindi, all’arte dello scrivere, piuttosto tardivamente, dando seguito infine ad una voce interiore che da sempre mi spinse a cimentarmici. Così ho capito anche che non esiste mai il troppo tardi per… e che semmai c’è sempre il tempo giusto per ogni cosa, che è quello e non può essere mai collocato né prima, né dopo. Una volta cominciato però, non sono più riuscita a fermarmi e così eccomi qui, col mio mezzo secolo di vissuto non sempre facile… ma che la scrittura mi ha aiutato semmai a guardare in una diversa prospettiva e con maggior distacco. È partendo da esso, che nascono i miei racconti, che seppur di fantasia, non riesco mai a svincolare del tutto dalla realtà, a cui rimangono saldamente ancorati.    

LINGUAGGI

Erano le sette del mattino. La giornata era fredda.
Dalla finestra della cucina il buio era ancora lì e si vedeva un’insolita nebbiolina che da giorni velava ogni cosa.
Martina come spesso accadeva negli ultimi tempi, trafelata, stava uscendo da casa.
Subito appena fuori salì al volo sull’autobus. La fermata era proprio davanti al suo portone.
Una volta salita, lì per lì non fece caso a nulla, ma a poco a poco era evidente che qualcosa non quadrasse. Contrariamente al solito la corriera era completamente vuota e non solo senza i soliti di ogni mattina ma era lei e basta.
Eppure le era sembrato di aver visto alcune facce conosciute dietro ai finestrini dall’esterno del mezzo prima di salire.
E anche la corriera aveva un aspetto inusuale quella mattina.
Ora che ci faceva caso, l’interno era di un colore giallo fosforescente molto intenso con delle singolari scritte nere di un carattere sconosciuto. Una specie cirillico latino.
Ma ciò che veramente era strano era l’aspetto grottesco del conducente che già dal vestito nero che indossava aveva l’aspetto di un beccamorto.
Magro come un chiodo sui cinquant’anni col viso di un pallore spettrale teneva il volante con delle lunghe mani di un colore bianco alle cui estremità si protraevano delle unghie insolitamente lunghe.
Le guance erano incavate e gli zigomi leggermente sporgenti facevano spazio a labbra pressoché inesistenti che mostravano una fessura stretta e corta.
Gli occhi erano di un colore grigio smorto con le orbite cerchiate di nero.
I capelli erano lunghi e lisci di un colore grigio topo dall’aspetto untuoso e stavano raccolti a formare una coda.
La situazione era angosciante.
Martina pensò addirittura che potesse trattarsi di un sogno. Provò a darsi un pizzicotto ma sentì dolore.
Non c’era nessuna spiegazione razionale a quella situazione.
Cosa aveva fatto di diverso dalle altre mattine?
Aveva preso quell’autobus come faceva sempre allo stesso orario di tutti i giorni e l’aveva preso di corsa dopo essersi sbattuta alle spalle la porta di casa.
Nel frattempo avevano oltrepassato tre fermate successive alla sua e non aveva visto nessuno dei soliti pendolari fermi.
Ora il mezzo era ormai prossimo ad un’altra fermata e sfrecciandole davanti, stavolta, le pareva aver riconosciuto qualche viso abituale.
Ma la corriera non solo non si fermò, ma quelli addirittura neppure fecero segno per fermarla, quasi non l’avessero neppure vista.
O almeno così le pareva.
Martina anche senza volerselo dire cominciava ad aver paura.
Doveva fare qualcosa e pensò di scendere al paese successivo.
Aspettò con ansia che il mezzo arrivasse alla fermata abituale.
Ma la strada da lì sembrava davvero interminabile, il tempo sembrava dilatarsi ma ormai vi era solo l’ultima fermata che la separava da quella di sempre, così attese con ansia di oltrepassarla e si apprestò a prenotare la discesa.
Il terrore che la corriera sarebbe potuta passata dritta c’era.
Eppure si fermò. E aperte le porte lei subito con un tuffo al cuore si precipitò dal mezzo dimentica di tutto.
Due gradini e giù ed ecco l’asfalto.
Le parve solamente di vedere un ghigno sul viso dell’autista giratosi appena verso di lei.
L’autobus ripartì spedito. E in quel momento se non fosse stato per una sua innata fobia a contrarre malattie infettive avrebbe persino baciato il suolo…

L’ALBA DI UN NUOVO GIORNO

Dopo tanto tempo i due s’incontrarono. Il disoccupato endemico e l’altro, il precario eterno. A lavorare, giusto per sbarcare il lunario. Tanto misera la paga quanto proibitiva l’abnegazione richiesta.
Il solito rituale dei convenevoli: “Come stai? Ti trovo bene!” E via discorrendo. E poi subito a sondare l’annosa e spinosa questione del lavoro.
“E tu? Sempre a cercar lavoro?”
E l’altro, dandosi un tono.
“Beh sai, ultimamente, dopo essermi iscritto in questi siti … sai questi siti internet cerca lavoro, ho risposto a uno … e devo dirti che subito sono stato contattato e mi hanno assunto!”
“Ma no!” Gianni, sgranò gli occhi “Non mi dire!” “E di che si tratta?”
Pino, sempre cercando di darsi una certa aria.
“Faccio il merchandiser!”
“Il mercia che?” Rispose Gianni quasi ridendo.
“Ma si, dai, si tratta di caricare gli scaffali del supermercato di mattina presto prima dell’orario di apertura, coi vari prodotti”.
“Ah ho capito, lavori in un supermercato, e quale?”
Pino sorrise e rispose subito: “Lavoro a quello sulla statale”.
“Ma dai” Disse Gianni sorpreso. “Però, che colpo! Di questi tempi lavorare lì è di certo una gran fortuna! Sono davvero contento per te!”
Pino, preferì sorvolare su altri dettagli e soprattutto volle evitare che si giungesse a parlare della retribuzione e quindi, per non dare ulteriori spiegazioni cercò di sviare dall’argomento personale spostando invece la conversazione sul lavoro dell’altro e di getto uscì quasi con un’esclamazione. “E tu invece cosa combini?
Gianni disoccupato da sempre, intuendo che l’amico s’era piazzato, non volle essere da meno.
“Sai, da tempo, avendo la passione per la scrittura accarezzavo l’idea di farmi notare da qualche editore. Così un giorno in uno dei tanti momenti trascorsi ad aspettare nella sala d’attesa del mio medico, sulle note del mio cellulare e vista la situazione dove mi trovavo, scrissi di getto un raccontino che aveva per argomento lo scorrere del tempo e che difatti ho intitolato “Tempo d’attesa”. Poi su internet ho trovato un sito di alcuni editori dedicato alla scrittura, ho postato il racconto e me l’hanno pubblicato.
Devo ammettere, che incoraggiato da quell’inizio non mi sono più fermato ed ho continuato a scrivere cose che mi pubblicano. Mi girano qualcosa ogni tanto e mi hanno contattato varie volte per qualche storia meglio riuscita.
Per il momento ci campo appena … ma spero nel futuro”. E sorrise compiaciuto della sceneggiata buttata lì.
Pino, che non s’intendeva di scrittura e manco di siti ad essa dedicati, né aveva idea che qualcuno potesse campare di far nulla,  immaginò d’acchito che l’amico fosse diventato uno scrittore, ma preso dal timore che si potesse arrivare a domandarsi i guadagni reciproci finse d’improvviso di aver fretta per via di alcune commissioni e tirò a chiudere svelto la conversazione, congratulandosi per primo con l’amico per la sua fortuna e per l’attività nuova, quindi dopo aver guardato un paio di volte di più l’ora, ad un certo punto, salutò definitivamente e se ne andò di passo svelto.
Gianni, dal canto suo tirò un sospiro di sollievo. Se l’amico non fosse andato di fretta avrebbe capito che lui non solo non era uno scrittore ma che, nonostante i suoi trentacinque anni suonati, era ancora il solito disoccupato di sempre.
Pino nel frattempo camminava dalla parte opposta e rifletteva. “Però che fortuna…

IL MAESTRO

Quella mattina i bambini in uno stato di ansia incontenibile, aspettavano il maestro di storia. L’argomento di quel giorno avrebbe riguardato la storia di questo ultimo secolo, ormai alla fine.
Dai primi anni duemila, la tecnologia robotica era divenuta appannaggio di tutti, ma che già dall’ultimo quarto del secolo precedente era stata individuata, studiata ed elaborata in tutto il mondo… c’è poco da dire, quello era un argomento che appassionava tutti. Specie i più piccoli.
Mentre attendevano l’arrivo del maestro, tutti si scambiavano i modellini dei robot, portati da casa, che ovviamente in quell’ambito la facevano da padroni e non solo in quell’occasione.
Tra loro, il piccolo Moses Rothschild aveva la collezione sicuramente più completa e con tutta probabilità era anche il più preparato sull’argomento.
All’ingresso del maestro in aula, tutti si portarono alle loro rispettive postazioni e nel raggiungere i banchi, all’unisono salutarono: “buongiorno mister Histor!”
Il maestro ricambiò il saluto mentre appoggiava contemporaneamente la sua cartella di cuoio sulla cattedra al centro dell’aula sopra ad una pedana proprio davanti ai banchi.
Si girò verso il muro e schioccando le dita, come dal nulla, uno schermo rettangolare illuminato si rifletté sulla stessa parete ed i ragazzi d’istinto lo guardarono anche se per il momento non proiettava null’altro che quella luce bianca azzurrognola… poi arrivarono più o meno alcune immagini.
L’insegnante aveva le sembianze di un giovane uomo di non più di trent’anni, in jeans e camicia bianca. Subito affrontò la giovane classe e appoggiandosi col fondo schiena al fronte della cattedra diede inizio alla lezione riprendendo l’argomento della settimana precedente.
Da ogni postazione, i bambini potevano osservare ora, le immagini olografiche proiettate a mezz’aria che si susseguivano, mentre il maestro spiegava:
“La robotica umanoide, quella vera, iniziò a fare la sua comparsa negli anni settanta del 1900, quindi ad oggi giusto cent’anni fa, gli ingegneri della Waseda University di Tokyo progettavano Wabot-1, il primo robot dotato di braccia, gambe e sensori visivi.
Fu il primo robot antropomorfo ad essere stato sviluppato nel mondo. Si trattava di un automa con arti funzionanti, dotato di un sistema di visione per misurare le distanze e le indicazioni per gli oggetti, attraverso l’uso di recettori esterni e di un sistema di conversazione con una bocca e delle orecchie  artificiali.
Wabot-1 era in grado di comunicare con una persona in giapponese e camminava con gli arti inferiori, avendo capacità di presa e trasporto di oggetti con mani che utilizzavano sensori tattili. Inoltre aveva le facoltà mentali di un bambino di un anno e mezzo”.
Il piccolo Ernst August, lo interruppe per chiedergli se Wabot-1, potesse apprendere così come il suo Pagetto, il piccolo umanoide, che sin dalla nascita gli era stato affidato. Il maestro rispose che in quel periodo della storia non era possibile… perché quel tipo di robot, erano ancora abbastanza rudimentali e continuò con la spiegazione.
“Fu soprattutto il Giappone quindi, nel primo ventennio degli anni 2000 ad investire maggiormente nel settore della robotica umanoide.
Di quel periodo, il robot più intelligente al mondo targato Honda: Asimo,  capace di correre ed evitare ostacoli in movimento, rispondeva a semplici comandi vocali, riconoscendo i volti e le voci di un gruppo ristretto di persone; riusciva persino a dosare la forza per afferrare gli oggetti”.
Man mano che gli ologrammi dei robot apparivano davanti ai bambini…

L’INCONTRO

Dopo una notte insonne, si era appisolata cinque minuti prima che suonasse la sveglia e come succede in questi casi, vista la stanchezza per la nottataccia in bianco, avrebbe voluto restare a dormire per recuperare le forze. Ma quel giorno non le era possibile. Il suono della sveglia ne era la dimostrazione che non era suo solito farne uso.
Quasi mai aveva delle impellenze tali da richiedere un tassativo risveglio ad un’ora prefissata. Così di solito, si destava con comodo, seguendo il suo ritmo.
Non quella mattina però.
Dopo avere silenziato la suoneria già di pessimo umore, che se avesse potuto avrebbe lanciato il suo inseparabile smartphone contro il muro, facendo uno sforzo  immane si mise a sedere sul letto. Poggiò i piedi sul pavimento gelato quasi a ricercare in esso un effetto benefico e tonificante, alzò lentamente le braccia roteando lentamente il capo prima in un senso e poi nell’altro, quindi tentò di stiracchiarsi cercando faticosamente di scrollarsi tutto quel sonno appiccicato addosso che sembrava non avesse alcuna intenzione di volerla mollare.
Dopo l’ennesimo sbadiglio, indossò le ciabatte che i suoi piedi prima avevano cercato a tentoni. Si alzò lentamente e uscendo dalla sua camera e, alla fine del corridoio, si diresse in bagno, attardandosi sulla tazza.
Con lo smartphone in mano controllò i messaggi di whatsapp e le notifiche di fb. e a colpo d’occhio nulla d’importante. Comunque nulla che richiedesse delle risposte immediate.
Per quel giorno, le priorità erano altre.
Alzandosi appoggiò lo smartphone sul davanzale accanto, si ricompose e si avvicinò al lavandino.
Per prima cosa osservò la propria immagine stropicciata allo specchio.
Non era un bel vedere. Aveva due occhiaie ed un colorito così cereo da sembrare un cadavere.
Aprì il rubinetto, fece scorrere l’acqua fresca.
Il clima era tale che a temperatura ambiente ancora l’acqua era gradevole, addirittura piacevole e corroborante.
Si insaponò il viso, poi con i palmi aperti e a piene mani si sciacquò abbondantemente apprezzando come non mai quella frescura sulla pelle.
Il torpore del sonno sembrava cominciare a dileguarsi.
Tornò nella camera per vestirsi, non prima di avere rifatto rapidamente il letto.
I vestiti li aveva già preparati con cura la sera prima, proprio per non attardarsi oltre.
Abbigliata di tutto punto, uscendo dalla camera, tornò in bagno, per truccarsi leggermente e recuperare il cellulare.
Dopo avere gettato un rapido sguardo allo specchio ed essersi accertata di avere riacquistato un aspetto quanto meno accettabile si diresse nella grande cucina soggiorno, dove sul divano era appoggiata la borsa.
Prima di uscire, si avvicinò alla grande vetrata, da dove era possibile ispezionare le condizioni metereologiche ed il cielo era terso e faceva da sfondo alle familiari montagne che nella loro imponenza si stagliavano contro di esso.
Il suo sguardo, seguendo le linee morbide e lievemente ondulate delle grandi alture, adesso vagava giù per la campagna che si estendeva ai piedi delle stesse e infine, si soffermava a contemplare il giardino appena sotto casa.
Quella vista era rassicurante.
Incoraggiata da quella visione familiare si mosse rapidamente e afferrata la borsa e le chiavi appese accanto alla porta aprì l’uscio e uscì di casa.
Scese lestamente le quattro rampe di scale e in un baleno raggiunse la portineria.
Aperto il portone si ritrovò per strada.
Si diresse alla macchina parcheggiata lungo il marciapiede davanti la palazzina accanto alla sua, che ospitava il B&B che lei gestiva da un anno a questa parte.
Mise in moto dirigendosi al vicino aeroporto.

VIAGGI NEL BUIO

I bambini hanno paura del buio, perché il buio sembra inghiottire la realtà fatta di volti familiari, di oggetti e colori. E così, per un bambino, il buio rappresenta l’angoscia dell’ignoto e più o meno tutti siamo passati in questa fase, che a volte ci siamo trascinati fino all’adolescenza. Il buio cela l’imprevisto, il mistero; si confà al colore della notte che tutto nasconde. Le oscure trame già richiamano la tenebrosità. Per non parlare dei buchi neri col loro orizzonte di eventi che tutto fagocita e oltre il quale nulla può sfuggire!
Crescendo però, talvolta, si cambia prospettiva e si può addirittura finire con l’associare al buio una dimensione rassicurante e protettiva. Certe dolorose vicissitudini hanno lasciato il segno e il giorno, con la sua luce accecante come un faro, illumina le brutture del quotidiano proiettandone le inquietanti e minacciose ombre. Così si aspetta la notte per rifugiarci e abbandonarci al suo tenero abbraccio che come un manto amorevolmente ci avvolge quasi a proteggerci. È lì, nel grande grembo, nel buio più totale, in una dimensione intima e personale che non ha confini, che la nostra coscienza si espande e diventa un tutt’uno col magico universo notturno, dove la luce della speranza si accende per illuminare finalmente quei sogni fatti del famoso materiale delle stelle.
Dopo un’infanzia passata a temere le tenebre, Berta adulta, semplicemente le adorava.
Del buio amava soprattutto la sua natura informe e l’idea dell’assenza di confini. La notte poteva essere plasmata a piacimento e come con la duttile creta, poteva creare nuove forme di realtà. Così, sin dal mattino, già sognava la notte. Assaporava quel momento magico in cui poteva finalmente dismettere la sua pesante armatura e archiviato un altro giorno, coi suoi fascicoli ricolmi di preoccupazioni, finalmente poteva poggiare la sua stanchezza su quel soffice giaciglio e con un semplice click, spegnere tutto; e da quel momento in poi cominciava la sua vera vita. Solo sua e di nessun altro.
Da quando si era liberata del pesante fardello di un matrimonio fatto di umiliazioni, aveva cominciato ad apprezzare la solitudine che ora sapeva essere la sua unica condizione possibile.
Troppo dolorose le ferite lasciate da una lunga esperienza di coppia totalmente sbilanciata a suo sfavore. Chi ha compagno, ha padrone si ripeteva e non voleva più averne. Così, solitudine per lei, non voleva dire sentirsi sola. Sola lo era stata in quella precedente esistenza. Ora era in buona compagnia, della persona migliore che potesse incontrare: sé stessa!
Aveva fatto più esperienze negli ultimi cinque anni trascorsi con sé stessa di quante non ne avesse fatte mai in tutto il suo mezzo secolo di esistenza. Nuova gente, viaggi nuovi e soprattutto una nuova avventura: quella di scrivere. Le era venuta tutto assieme questa smania e non c’era giorno che non scrivesse… qualunque cosa.
Per troppo tempo era stata costretta a tacere e nella sua testa aveva avuto troppi pensieri. Tutto desiderava uscire per confrontarsi col resto del mondo e quale modo migliore di mettere tutto nero su bianco? Così, attraverso la scrittura, dava corpo ai suoi pensieri, che poteva finalmente osservare per cercare soprattutto di comprendersi.
Ma aveva fatto anche altro. Si era liberata di un’altra inutile zavorra: quella di un credo religioso imposto, che nessuno ha facoltà di scegliere. Quei pacchetti di verità preconfezionate che vanno bene a tanti e fanno per certi versi comodo, perché evitano di doversi scervellare e a lei questo non stava più bene e forse, non le era mai andato bene!
Il dubbio aveva sempre fatto capolino sin da quando, seduta sui banchi del catechismo, già a partire da Adamo ed Eva e molte cose non tornavano.
Così, un bel giorno, decise semplicemente di affrontare quei dubbi e di non ricacciarli più dentro e che non avrebbe avuto più bisogno di una religione.
Ma poi quale religione? Bastava avere una visione più ampia del mondo, per capire che ogni religione è come un recinto. Chi sta dentro al recinto è convinto che solo lui sia il depositario della verità assoluta e già questa è la prima menzogna…

UNA NUOVA STELLA

A distanza di secoli da un altro femminicidio che ci ha resi tristemente famosi nel mondo, un’altra donna uccisa da un uomo di famiglia.
Da uomini che non accettano che una donna possa decidere per se stessa in maniera difforme da quello che è nel proprio immaginario.
Da quello che essi hanno già deciso per lei e che non contempla nessuna variazione sul tema.
Così, un unico, brutale ed insano gesto cancella la grande distanza temporale tra due episodi che in comune, oltre al luogo, hanno le vittime: due giovani donne. La baronessa Laura e la commessa Anna ed i carnefici, due uomini, rispettivamente il barone padre, che volle cancellare l’onta del disonore e l’ex marito che non voleva rassegnarsi a restare ex.
Così nel paese dell’amaro caso, un altro caso dal sapore amaro, che ha lasciato tutti di stucco.
Il racconto che segue… seppur tratto da un fatto vero, è  liberamente interpretato.
Io non so come siano andate le cose nella realtà. Ma questa storia, fatta eccezione per i particolari, alla fine è comune a quella di tante altre donne, vittime di uomini, che vorrebbero averne il controllo, ma non ci riescono.
Un fiotto rosso vivo, all’improvviso, sgorgava ora da quella ferita, inferta alla gola e sferrata nella colluttazione.
Stavolta l’ennesimo litigio, era degenerato e non le aveva lasciato scampo.
La mano, quasi nel tentativo di arginare quel flusso inarrestabile che scorreva via, insieme alle immagini in sequenza di un’intera vita giunta tragicamente ad un inatteso epilogo.
La vista sempre più offuscata. Le membra che cedevano e infine il crollo, giù per terra come un fantoccio.
E dire che quella mattina, così come tantissime altre prima, si era preparata con cura, uscendo di casa con la sua bellezza di sempre, per portarsi sul luogo di quel lavoro, che con tanto amore e dedizione svolgeva oramai da anni, ignara del destino crudele a cui sarebbe andata incontro e che avrebbe arrestato per sempre il corso della sua ancora giovane esistenza.
Quella graziosa commessa tanto gentile, che molti conoscevano ed apprezzavano per i modi cortesi, era arrivata al capolinea in un giorno apparentemente normale…