Danilo Cannizzaro

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Danilo Cannizzaro

Danilo Cannizzaro nacque (ma forse è più corretto dire: ritornò in vita) in un laboratorio posto di fronte alle coste cartaginesi, all’incirca un cinquantennio addietro i nostri giorni, a causa della rottura della fala in cui un fattucchiere alchimista teneva segregata la sua anima dannata. Ben presto si trovò spaesato in un mondo di rapidissimi, frenetici mutamenti, e sperimentò quindi con scarsi risultati l’integrazione con gli umani: come è ben noto, il diverso “sciocca”, laddove, per contro, il “gruppo” infonde sicurezza. Allo scopo di riscattarsi, e al contempo per sbarcare il lunario, si diede – pratica ancor oggi frequentata – alla satira, all’invettiva contro la specie che mai del tutto riesce ad accettarlo, in quanto extra-extracomunitario. Morirà tra non molto, essendo la sua fabbricazione sottoposta a improrogabile, fsiologica scadenza genetica, cosa che non desta poi troppo scalpore, poiché, si sa: su questa terra, “…tout passe, tout lasse, tout casse…”

 

“La Bandella” di Mirella Cassina

“Per nascere nacqui, evidentemente contro ogni mia volontà.” Leggendo questo libro si ha la sensazione di essere di fronte all’intervista, ad opera di un ipotetico cameraman, ad un uomo apparentemente comune, nel tentativo, forse, di coglierne, attraverso diretta testimonianza, quell’originalità, vera o presunta, caratteriale in ogni essere umano.

Attraverso la testimonianza di una fanciullezza e di una gioventù fissata dalla memoria, appunto la memoria, diviene l’indagata protagonista.

Cosa di noi ci rimanda il nostro rammemorare?

La telecamera pare seguire il protagonista ben al di là della sala di registrazione, sembra volerne penetrare l’esatta condizione esistenziale attraverso notti insonni, tormentate dai sogni e dai vuoti presenti nel suo attuale stato di decadimento psicofisico. All’insegna di un vissuto, giunto a noi,  attraverso tempi e modi che tanto ci riportano a quell’esaltante e al contempo sfrontato, stile caratterizzato dalla scrittura, nel manierismo dettato dagli autori della beat generation.

Nasciamo registrati dall’occhio di un obiettivo da cinepresa, sotto al quale continuiamo a recitare, nel tentativo di sfuggire all’immagine dell’estraneo che di noi ci rimanda il riflesso dello specchio.

Costruzione e ricostruzione di un sé mirato, attraverso le immagini che, come cita l’autore, “ci giungono vivide e nette, romanzate dalla maestria millantatrice della memoria che ben sa come si fabbricano i ricordi, carichi di un tempo passato eppure sempre presente ed immutabile, abile tuttavia ad arricchirsi in modi e suoni differenti, inquadrature proiettate da macchine da presa posizionate in punti diversi”.

Con uno stile audace e provocatorio, dissacratore e a tratti struggente, l’opera si pone nella ricerca di un’essenza dell’essere, destinata, forse, a sfuggirci eternamente “il sogno sostituisce la coscienza”, fino alla dimenticanza. Se non fosse che per quella “conciliante tenerezza” verso una dimensione dell’io che dell’esserci e del non esserci ne abusa, tanto che più sopportabile possa essercene il peso.

Un racconto: La ballata del mare soluto

Se qualcuno dicesse che negli ultimi cinquant’anni c’è stata una mareggiata più forte di quella di un paio di anni fa, non esiterei a liquidarlo come un imbroglione e uno stordito!

Lo ricordo bene: la potenza delle onde era eccitata da un vento infuriato, e così queste gonfiavano i pozzi neri prossimi al litorale flagellato. Tali cloache improvvisate (la maggior parte) furono scavate, un tempo, sotto il livello del mare: ne venne fuori che le case presto risultarono invase da abbondanti sospiri di fogna spumeggiante.

Ah! Un trionfo.

Bisognava esserci per capire.

I quattro mediconzoli locali, al culmine dell’esultanza, suonavano l’organetto, ballavano sul posto, si fregavano le mani, cantavano posseduti:

– «Che meraviglia! Viva viva la salmonella benedetta! A me i nuovi tifoidi!»

Spettacolari, anch’essi.

Un mattino incupito da nubi gravide m’ero installato, – si dirà che ho un temperamento sentimentale… che importa..? – su una passerella del molo.

Davanti mi si arrotolavano le note furenti d’un mare scuro, sillabato da creste d’onda di color ghiaccio bigio e ferrigno: erano cascami d’alluminio sporco o lacere lamiere divelte, che s’accartocciavano crepitando gemiti elettrici: alcune lingue si dipartivano dai flutti cinerini, ramificandosi in dita maligne che pareva volessero ghermire uomini e cose.

I miei pensieri erano instabili e cattivi: per questo avevo bisogno che il mare imponesse un ordine su tutto ciò che in me era disorientato e confuso.

Senza rendermene conto mi ritrovai ad osservare col mio sguardo profondo alcuni portuali, molto agitati, che si sfiancavano nel governare gli ormeggi minacciati, si stremavano nel cercare di mettere al riparo le imbarcazioni.

Ogni poco, con un cenno del capo, approvavo, o meno, le manovre convulse di quegli uomini, mentre Charles Aznavour, a due passi di distanza, intonava Le palais de nos chimères:

– «Eh..!» – facevo.

Oppure:

– «Beh..!»

Ma anche:

– «Oh, là là..!»

Penetranti bestemmie riempivano intanto quella porzione di Mediterraneo, e si creò ben presto un’atmosfera ricca dell’essenza di antiche tradizioni triviali.

Una brezza umida però iniziava a penetrare nelle ossa e nelle tasche, per cui mi risolsi ad alzare il bavero del mio soprabito.

Nel far ciò scorsi una figura umana che si appoggiò al parapetto da cui osservavo quella specie di tifone che schiaffeggiava la costa.

Sospirava ispirata, oppressa da uno strazio intimo, tuttavia non la riconobbi prima che esprimesse un lamento, quasi impercettibile:

– «Ah! Mare! Quanti segreti spaventosi custodisci nel tuo ventre liquido!» – ruminava l’infelice.

– «Ma non avrai anche me! Mare! Tu non riuscirai a sopraffare anche me! Mare!» – E agitava, dinanzi a sé, un pugno pieno di rabbia e di sfida.

Queste parole, sprezzanti e sofferte, mi impressionarono: solo allora compresi che si trattava del mio amico Fernand.

Non l’avevo più visto da un bel pezzo.

Ricordai allora, quasi per automatismo, la singolare origine del suo soprannome: “Papillon”.

***

Questo curioso nomignolo gli venne cucito addosso, indelebilmente, e per di più riconosciuto anche dalle generazioni successive, nientemeno che da mio padre.

La cosa nacque all’epoca in cui Fernand (creatura molto precoce) aveva due, forse tre anni.

La madre, donna molto rigorosa, pretendeva da lui una condotta irreprensibile e lo opprimeva con incessanti prescrizioni.

Ma il giovane delinquente non era nato per subire qualsivoglia autorità: egli possedeva già allora un forte senso di libertà – della sua libertà.

Naturale quindi che gli interessi del giovane e quelli della madre fossero sempre in contrasto. Al minimo sgarro, pertanto, erano botte da orbi.

Troppe botte, pochi orbi: uno solo.

Fernand aveva sviluppato, date le circostanze, una raffinata tecnica di evasione: allo scopo di sottrarsi per qualche ora alle botte e alle vessazioni, dava inizio alla sua fuga recandosi presso una vicina di casa, con la quale si intratteneva giusto il tempo di ricevere dolcetti, caramelle, solidarietà, sufficienti a costituire una prima traccia del suo passaggio.

Poi si introduceva nell’abitazione di una seconda vicina di casa: anche lì coccole, raccomandazioni.

Nella terza effrazione non mancava di rifornirsi di merendine, piccoli regali, generi di conforto facilmente trasportabili.

Nei suoi occhi luccicavano le lussurie più sfrenate durante le soste effettuate nei cortili, nei giardini, in tutti gli attraversamenti successivi.

Si assicurava che in tutti i trasferimenti rimanessero prove tangibili della sua folle corsa.

Quando finalmente si accorgeva della sua sparizione, la madre partiva alla ricerca del novello Rocambole animata dal più impetuoso istinto omicida, ma le sue investigazioni erano inevitabilmente rallentate da tutti quegli indizi disseminati ad arte.

Lo avrebbe raggiunto, prima o poi; entrambi ne erano coscienti.

Lei non avrebbe tralasciato di presentargli un conto assai salato: fracassare il più inaccessibile ossicino del figlio sarebbe stata la premura più scrupolosa, ma…

Ma..!

Papillon aveva a questo punto già goduto di una, due, forse tre ore di libertà.

Il suo spirito era tuttora libero!

Egli era ancora vivo!

***

Fernand è sempre stato un ragazzo ben dotato di talento e di romanticismo.

A stomaco vuoto in lui prevale il talento, ma doveva aver preso una buona colazione, perché in quel momento il turbamento sembrava predominare.

Lo affiancai. Mi guardò.

Incalzato dalle proprie tare tardò qualche istante a riconoscermi.

– «Allora Fernand?» – Gli sorrisi – «Sempre sulla breccia?»

Senza dirglielo pensai, comunque, che doveva aver sbagliato breccia.

Forse che la brezza era insinuante? Forse il suo cuore voleva traboccare?

Vidi che era un pupazzo rotto, con gli occhi caduti all’indietro.

– «Ah! Sei tu… Ti vedo, ma mi sembra di sognarti.» – in tal modo stappò l’otre della commozione, rigandosi il volto con lacrime abbondanti.

– «Vedi,» – mi disse indicando le onde che mordevano la spiaggia – «è davvero uno spettacolo superbo, ma mi procura sempre un enorme dolore. Ogni grande mareggiata mi spezza il cuore.»

– «Dimmene di più dunque: ci sarà bene una spiegazione.»

– «D’accordo. Ma non qui.»

Mi prese sottobraccio, volgendo intorno lo sguardo con fare circospetto:

– «Vieni.»

***

Fernand asciugò le lacrime col dorso della mano davanti ai due bicchieri di roba forte che aveva ordinato.

– «Tu conosci l’amore?» Mi fece quando si sentì pronto a vuotare il sacco.

– «Devo aver letto qualcosa in proposito…»

– «Ora saranno tre anni, giorno più, giorno meno. Mi ero completamente fulminato per una ragazza bella, gentile, affettuosa. La fine del mondo!» – Il tempo di buttare giù il suo bicchiere, ma anche il mio – «Oh, perdonami…» – disse – «Altri due per favore! E niente… Facevo un po’ d’arte, allora. Era il mio periodo “pittorico”. Non dipingevo neanche troppo malaccio.»

– «Sì, mi sembra di ricordare…»

– «M’innamorai come un tordo di questo angelo, e tutto filava alla perfezione. Neanche posavo per terra con i piedi.» – Nuove lacrime lo costrinsero ad ingoiare il contenuto dei nostri due bicchieri.

– «Scusami. Il ricordo di questa storia mi sconvolge sempre.»

– «Me ne rendo conto, Fernand.» – chiesi con un gesto alla brunetta preposta altre due dosi di medicamento.

– «Un giorno mi disse che l’indomani avrebbe festeggiato il suo compleanno con alcuni fra parenti e amici, e mi invitò a raggiungerla nella sua villetta di fronte al mare. Mi dissi che le avrei fatto un bel regalo. Non una cosa qualsiasi, ma un dono importante… che le parlasse di me. Te l’ho detto che mi era partita completamente la brocca per questa meraviglia di ragazza?»

– «Si Fernand, me lo hai detto.» – Ma questa volta afferrai il mio bicchiere prima che potesse farlo sparire nei meandri della sua angoscia. Non potevo biasimarlo, del resto: egli non aveva beneficiato della fortuna di avere dei genitori alcolizzati, avrebbe pertanto dovuto degenerarsi con molto impegno, per pareggiare la pesante eredità delle loro virtù.

– «Ebbene, la casa della mia pupilla si nascondeva dentro una insenatura graziosissima, uno scenario naturale di straordinaria bellezza. Questa combinazione mi diede l’idea di catturare l’immagine di quel posto meraviglioso (che di certo lei doveva amare) per mezzo di un mio dipinto. Non stavo nella pelle per la frenesia di stupirla con il mio talento!»

– «Non ne hai lasciati pochi, di stupefatti, Fernand!»

Confesso che lo ero anch’io: avevamo ormai spacciato il quarto o il quinto bicchiere.

In presenza di quello straripamento di sentimenti non stavamo certo a fare contabilità.

Del resto, Alain Barrière, accasciato al tavolino di fianco al nostro, aveva già preso qualche stecca – i bicchieri si avvicendavano anche per lui – interpretando Elle etait si jolie.

– «Ah..? oh, eh… bèh… Ti ringrazio molto, mio buon amico!» – fece, non troppo convinto, tuttavia riprese il filo:

– «Dov’ero? Ah, sì: corsi tutto eccitato alla volta della baia con il mio armamentario di acquarellista, scelsi un punto d’osservazione favorevole, mi collocai quindi con l’argento vivo sotto pelle. Tirai fuori tubetti e pennelli, carta, matita, tutto il necessario insomma. Solo allora scoprii che avevo dimenticato, per la fretta, qualcosa di essenziale: l’acqua!»

– «Non è mai stato il tuo elemento preferito, Fernand.»

– «Oh, ma… Può essere… Comunque, non mi persi d’animo: sai bene che sono capace di trovare sempre nuove soluzioni!»

– «È vero Fernand.» – dissi pensando soprattutto alla sua predilezione per quelle alcoliche.

– «E infatti la trovai: ce n’era talmente tanta, di acqua! Ero a due passi dal mare. Farò il mio acquarello e userò questo, liquido, pensai. Geniale!»

Mi complimentai sinceramente con Fernand mentre continuavamo a servirci generosamente di quell’altro, liquido.

Non so se fu per l’abbondanza di liquidi, o per la pena che i ricordi gli infliggevano: Fernand a questo punto riversò in dettaglio sul tavolino, in lacrime, tutto quello che aveva tracannato all’ingrosso.

– «Su, Fernand… Animo! Tutto si sistema…» – azzardai, ma non sapevo troppo bene quel che dicevo.

Infatti ritenni necessario reintegrare in lui la quota dei liquidi diminuiti.

Sollevai la mano, ma la brunetta era già alle mie spalle, equipaggiata di dosi doppie – tanto per risparmiarsi un viaggio – e di un folto sopracciglio inarcato, che con tutta probabilità doveva significare: “Sì, lo so. Conosco il nonno, di tutte le vittime delle illusioni perdute.”

Per non essere da meno, inarcai tutt’e due, le sopracciglia.

Ma non dovetti impressionarla granché, dato che dondolava pericolosamente le anche ormai lontana da noi.

***

Fernand risalì dall’abisso nel quale si era smarrito, dopo l’assunzione di nuova medicina:

– «Non riusciresti mai ad immaginarlo, amico mio!»

– «Ecco perché confido di apprenderlo da te, mio buon Fernand.»

– «Quella splendida ragazza gradì moltissimo il mio regalo. Lo appese soddisfatta nella sua camera. E qui arrivò la sventura: né lei né io avremmo mai potuto sospettare che quel paesaggio che avevo realizzato con tanto amore con l’acqua di mare… era sensibile alle attrazioni lunari e persino soggetto alle maree!»

– «Che mi racconti? È quantomeno bizzarro tutto questo!»

– «Bizzarro..? Bizzarro, dici..? Oh no, non è bizzarro. È terribile!»

E certamente non avrebbe avuto la forza di continuare, se non avesse preso coraggio da altre abbondanti sorsate. Mi parve corretto non lasciarlo da solo in quel compito gravoso.

Infatti – ecco – riuscì a superare lo scoglio:

– «Una notte… una notte di tre anni fa come oggi, una mareggiata eccezionale si abbatté sulla costa. Tuoni, fulmini, una notte spaventosa! Ma la mia stella si era addormentata alla maniera di un sasso. Avvolta nei suoi sogni dolci non poté accorgersi che l’acqua di mare con cui avevo realizzato il mio acquarello era straripata dal quadro… Quando l’indomani mattina, con gli occhietti ancora chiusi, mise a terra i suoi piedini di fata, non vide che la sua stanza era allagata. Scivolò, fatalmente, senza potersi difendere. Batté violentemente la testa sul comodino. Il colpo la uccise.»

– «Ma è tremenda questa storia, Fernand!»

– «Sì, è orribile. Del resto, puoi chiedere a mio cugino Christophe: mi fu vicino, in quei giorni.»

***

Dopo un paio di giorni incontrai per caso Christophe.

Non seppi resistere: gli domandai di questa storia.

– «Ma non conosci Fernand?» – fu il suo resoconto. – «È una grandissima minchiata! Un’altra delle sue!»

Mi allontanai deluso.

Quasi un’ombra, alle mie spalle, Edith Piaf mi seguiva cantando Non, Je ne regrette rien.

Ma io non le badai.

Ero troppo deluso.

Troppo.