Marco Belli

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Ognuno di noi ha delle passioni: sportive, culinarie, culturali, ad libitum. Una delle mie, forse la più importante, è la passione per la Storia. Da quando? Da sempre! Da ragazzo, da studente, da tempo perso. Ho sempre letto libri storici, specie quelli del XX secolo. E questa passione si è a poco a poco trasmessa anche nello scrivere, cioè racconti di fantasia con sfondi di ambientazioni storiche...

Marco Belli

Nonostante sia ciociaro di nascita ma veneto d’adozione, mi sento una sorte di apolide, in quanto amo quasi tutti i posti che ho visitato nella mia vita. Sono cresciuto col culto dell’impiego pubblico, la maggior parte della mia vita si svolge infatti dentro un mausoleo a forma di cubo, che molti si ostinano a chiamare uffici, dove vado a tumularmi la mattina. La passione per lo scrivere è nata in questi meandri, ed è stata influenzata dalla mia seconda passione, quella per la Storia: da qui le molte ambientazioni nei miei racconti. Oltre che scrivere (e leggere) racconti, mi diletto a tracciare qualche poesia: ma non è proprio il mio forte. Leggo moltissimo, anche se il mio preferito è Stefano Benni: da lui ho mutuato l’idea di scrivere molti piccoli racconti (Il bar sotto il mare è un ottimo esempio). Inoltre amo la natura che mi ispira e mi da quelle serenità di cui necessito periodicamente e culla per i miei lunghi pensieri; per questo vivo in una casetta in campagna. Infine, io scrivo sempre qualcosa che abbia un sapore.. originale: i deja vu non fanno per me.  

UN DOLCE PER UN BACIO

…finalmente hanno smesso. Sono stufo di stare in questa topaia. Sono giorni che sto rintanato qui dentro. Per compagnia topi, scarafaggi, millezampe vari. E il mio amico Carcano. La mia ampolla metallica già da tempo non secerne più l’agognata acqua, ormai lucro quella che filtra dalle fessure delle pareti. Buonissima: sa di acqua arricchita alla calce. Sto per uscire, voglio uscire, ma cosa troverò? E soprattutto, chi troverò? Non ci si capisce più nulla: chi è amico, chi è nemico, chi è contro chi o a favore di chi.  Dovrò guardarmi da quelli vestiti di verde, da quelli vestiti di grigio o da quelli vestiti di nero? Oppure quelli con varie policromie, che sono ancora più arrabbiati?
Mi chiamo Marco, sono un soldato del Regio Esercito Italiano e dopo l’armistizio dell’8 settembre il mio amato paese è sprofondato nel caos. Dopo aver atteso inutilmente ordini, la mia unità si è sbandata ed io come gli altri ci siamo divisi e disseminati in questa città. Ma la guerra continua, altroché, io mi sono nascosto nello scantinato di questo palazzo, ma ora che ho finito l’acqua della borraccia devo uscire a cercarne altra, altrimenti morirò disidratato.
Sono allo scoperto e mi aggiro come un fantasma tra le macerie. Per le strade, invase dai calcinacci e detriti dei palazzi sventrati, si avverte un forte odore acre, dovuto ai cadaveri in decomposizione. Percorro cautamente quella che una volta era la via principale di questo agglomerato urbano, con pali della luce in stile liberty, a testimonianza della bellezza e dello sfarzo che trasudava un tempo, ma ora  è popolato da misere case-fantasma. Che il tramonto, con le sue ombre sinistre, rende ancora più tetre. Gli jabos – i bombardieri delle forze alleate – hanno contribuito a creare questo festival di nudi di cemento e mi è stato detto che gli yankees ci fanno scrupolosa visita di giorno, mentre quelli del Big Ben la notte.
Sento dei passi in fondo alla via: devo stare attento. Del resto di chi posso fidarmi? Tutti possono essere miei nemici. Ora si parla degli ex fedeli al deposto regime che si stanno raccogliendo sul lago di Garda, forse per riorganizzarsi, oppure di reparti che non si sono sbandati e che stanno combattendo a fianco degli alleati: la chiamano cobelligeranza. Sembrerebbe una burla ma non lo è. Per contro, qualche giorno fa ho incrociato un soldato, un alemanno, un compagno d’arme, l’ho salutato per chiedere informazioni: lui mi ha sparato di rimando. Fetente mangiatore di crauti! Infine la mia ex fidanzata si è data alla macchia, con alcuni che si chiamano partigiani, credo, ma non ne sono sicuro e quelli gentilmente ci sparano se non ci uniamo a loro.
I passi si fanno più intensi: si avvicina qualcuno. Calma Marco, calma: non sarà un cecchino. Quelli stanno nei punti più alti per beccare gli sprovveduti come me. L’odore nauseabondo di un cadavere marcescente mi penetra le narici, togliendomi quel poco di lucidità che posseggo. Inoltre il battito del mio cuore ottunde le orecchie: non riesco a percepire bene la distanza di quei passi. Ma perché non sono rimasto nella mia tana?
“Fermo, mani in alto!” Grido con quanto fiato ho in gola alzandomi di scatto, puntando il mio moschetto d’ordinanza mod. Carcano verso quel camminare!
“Ciao, chi sei?” Mi fa una bambina lacera, sporca, che porta in mano una bambola, combinata come lei.
“Sono un soldato, piccola.” Le rispondo, puntando il fucile verso le macerie, probabili nascondigli di malintenzionati.
“Sto cercando da bere. Ma tu che ci fai a quest’ora in giro? Dove sono i tuoi genitori?” Le chiedo guardandomi sospettosamente intorno.
Già, che ci fa in giro a quest’ora una bambina sola, mi chiedo, con una bambola in mano, in questa parte della città divorata dai bombardamenti? E poi, perché appena mi ha visto non è scappata? Inoltre… “Mi chiamo Eraclea.” Interrompendo così i miei pensieri. “Lo senti questo carillon? Ti piace la sua musica?”
In quello che fu un emporio di dolciumi proveniva una nenia di una ballata degli anni Trenta: la conosco perché mio padre la fischiettava sempre mentre si radeva, tagliandosi immancabilmente. “Io vivo là. Se vuoi ti ci porto.” Nel dirlo, mi prese la mano, conducendomi verso quello che rimaneva di un caseggiato.
La sua mano è fredda, eterea, impalpabile. Ora che la guardo meglio somiglia a qualcuna che ho già conosciuto. I miei passi diventano più leggeri, non sento più i rumori, non sento più niente.
L’insegna del negozio recita Premiata dolceria Modena e da quel che rimane delle ampie vetrate posso immaginare che questo era una cattedrale per chiassosi e festosi bambini.
Entro nel locale, pieno di calcinacci, topazi di vetro in libera uscita, banconi polverosi. Tra i tavolini semisepolti e sedie che non ospitano più nessuno scorgo, in fondo alla sala, alcune coperte, che parrebbero presupporre un giaciglio.
Mentre cammino mi accorgo di conoscere quel posto, di esserci già entrato, eppure non ci sono mai stato in questa città e non ho più il mio fucile ma stranamente non ho nemmeno paura.
“Qui venivi con altri bambini a prendere i dolci, ne prendevi due: uno lo mangiavi tu e l’altro..” Mi dice Eraclea, quasi in tono interrogativo “Con l’altro… che cosa ne facevi?”
“Lo prendevo e.. lo portavo a…” Parlo tra me, credendo di risponderle, cercando il più possibile di ricordare. Ma non voglio ricordare, mi fa male e…
Ora la nenia è diventata una canzoncina ripetitiva, di cui stranamente ricordo le parole.
“Lo portavi a me Marco, perché io non potevo entrare qui in quanto ebrea. Ti piacevo, ma non avevi il coraggio di dirmelo, per questo mi portavi…

 

LA MALEDIZIONE DELLA DONNA DAI DUE VOLTI

“Vai via bugiardo, sparisci. Fuori da casa mia. Vai a raccontare le tue fandonie a qualcun altro. Non vali neanche il pane che ti ho dato! Sparisci! Sei solo uno scemo e nient’altro. Ti dai tante arie ma sei lo scemo del villaggio. E se ti farai rivedere, la prossima volta, libererò i cani. Per Osiride!”
Finisce la minacciosa frase tirandomi contro due sassi e il suo bastone. Come al solito… anzi no, meglio delle altre volte. L’ultimo mi ha colpito e con forza, quel bastardo.
Non ha creduto a quello che gli dicevo. Come questo qui… Come tutti.
D’altronde qui ad Alessandria d’Egitto mi conoscono ormai quasi tutti così, come quello che racconta fandonie, come un cantastorie, come un bugiardo matricolato. Si certo, potrei andare lontano, in un’altra città, ma sono stanco, tanto. E poi sussiste il  divieto del faraone di allontanarmi, pena la morte.
Quella sera stessa andai a dormire sotto uno dei ponti che attraversano il fiume della città, il Syrdarja, con la gradevole compagnia di ratti, scarafaggi e randagi vari.
L’indomani, dopo aver passato una notte agitata, mi alzai di buon’ora per cercare un lavoro, sperando di trovare qualche occupazione adatta alla mia persona, in quanto essendo di costituzione esile non è facile che trovi lavori che non siano troppo pesanti.
Infatti la mia ricerca fu vana. Quindi mi recai ad infoltire l’umiliante fila che si faceva nella piazza cittadina principale, la Midan Saad Zaghoul, ove vi si recano tutti i poveracci che non hanno trovato di meglio se non elemosinare un pasto caldo.
Dopo aver soddisfatto malamente il mio ululante stomaco – roba che neanche i forzati mangerebbero una sbobba simile – andai nella biblioteca della città per leggere qualche papiro, ma soprattutto per assaporare un po’ di refrigerio. Perché sembrerà strano, ma io so leggere.
All’entrata dell’edificio più importante, per mia fortuna, vi erano due annoiate guardie che non fecero molto caso a me e al mio aspetto, altrimenti mi avrebbero cacciato.
Una volta dentro, camminai fino al Serapeum, una sorta di struttura più piccola contigua a quella principale, adibita alla lettura pubblica, perciò di libero accesso a chiunque.
Per non dare troppo nell’occhio mi misi a sfogliare alcuni rotoli di trattati vergati da Eratostene,  noto geografo che aveva realizzato svariati papiri concernenti gli studi scientifici.
Avevo estremamente bisogno di un po’ di frescura e di pace – ero stufo di sedermi per terra e di essere sovente cacciato – e dopo aver mortificato la carne con un pessimo pranzo volevo allietare lo spirito con qualche lettura, ma ahimè venni notato.
“Ah, non sapevo che anche i vagabondi sapessero leggere!” Mi disse simpaticamente un altro frequentatore della biblioteca.
“Credevo che solo i nobili sapessero e potessero leggere. Uno come te può soltanto maneggiare la kemet, la terra nera del Nilo! Ahahah!”
“E da quando in Egitto è permesso ad un asino greco di ragliare fuori dalla sua stalla?”
Furioso per la mia risposta, il lettore venne da me brandendo il suo bastone da passeggio, minacciando – e non solo – di colpirmi.
“Ti prego, non percuotermi o mio potente e misericordioso signore. La mia dose di randellate l’ho già avuta ieri e la mia povera schiena non ne sopporterebbe delle altre!”
“Se non terrai a freno la lingua, escremento di uomo, ne riceverai sicuramente delle altre!” Disse alquanto irato. Poi sdegnato, fece per andarsene, ma all’improvviso si voltò.
“Dimmi, servo della terra, come sai che io sono greco? Non vesto come un ellenico.”
“Dal tuo accento, mio benevolo signore e da come leggi il papiro. Solo voi greci…” Ma non finii la frase. Ebbi paura.
“Tranquillo, non avere paura. Sei piuttosto strano, per essere un errante del mondo: non solo sai leggere, ma addirittura discernevi papiri che solo architetti o eruditi nelle costruzioni sanno interpretare. Tu non sei uno straccione qualsiasi. Sei stato per caso uno schiavo presso qualche piramide? Hai servito al seguito di qualche costruttore, o qualche architetto ti ha insegnato i rudimenti dell’architettura? Avresti voglia di raccontarmi la tua storia nella mia umile dimora? In cambio potrai farti un bagno caldo (credimi, ne hai bisogno) e mangiare…

IO, MANICHINO

“BENVENUTI ALL’INAUGURAZIONE DEI GRANDI MAGAZZINI “STENDAR DI MILANO”! SIAMO QUI, IN QUESTI PUBBLICI ESERCIZI, PER FARVI VEDERE LE NUOVE MERAVIGLIE DEL MONDO!
ENTRINO, ENTRINO TUTTI, DAI PIÙ GRANDI AI PIÙ PICCINI, DAI PIÙ BELLI AI PIÙ BRUTTI, ENTRINO SIORI E SIORE!
POTRETE VEDERE I NUOVI REPARTI DI ALIMENTARI, I NUOVISSIMI REPARTI DI GIOCATTOLI CON LE AMERICANE JEEEEEPS, LE BOUTIQUES DE PARIS E SOPRATTUTTO IL SUPER GRANDE IMPORTANTE SELF-SERVICE DI CIBI PRECOTTI!
DIRETTAMENTE DALL’AMERICA CIBI GIÀ CUCINATI E PRONTI DA MANGIARE!
VENITEEEEEEEE SIORETTI E SIGNORINEEEE! AL PIANO SUPERIORE POTRETE TROVARE LA NOVITÀ DISCOGRAFICA DEL ’58, PRIMO NELLE CLASSIFICHE NORD AMERICANE, “KING CREOLE” DI EEEEEEEELVIS PRESLEYYYYYY!
ED INFINE PER  VOI MAMME: AI PRIMI DIECI BAMBINI CHE ACCOMPAGNERETE AL REPARTO GREMBIULI SCOLASTICI VERRÀ REGALATO UN PALLONCINO DELLA DITTA DI DOLCIUMI “ALEMAGNA”. ACCORRETE. ACCORRETE TUTTIIIIII.”

Che bello che bello. Finalmente l’inaugurazione. Finalmente entrano. Finalmente mi vedranno!  Oddio come sono emozionata, non sto più nei miei vestiti. Che mi donano a pennello. Che mi cambiano spesso, ma questi da studentessa liceale mi piacciono da morire. Sono così… così… ah, si salve: io sono Ciclamina, sono un manichino. Ma non un manichino qualsiasi, sono un manichino che viene direttamente da una boutique di Parigi, ed indosso solo abiti alla moda, e… ehiii, si stanno avvicinando e… guardano me! Adesso devo stare zitta e ferma: devo fare bella figura. Bè, si: io sto sempre ferma… ma che importa? Siiiii stanno parlando di meeeee!
-Dì, Maria, ma hai visto la nuova moda di Parigi? Tutta a quadri. E poi, le ragazze di oggi vestono come i ragazzi, ‘ste svergognate!
-Ma no, Giovanna, sei sempre la solita. Sei tu che non capisci: questo è il progresso. Io trovo delizioso il golfino a quadri con la fascia sulla testa che tiene i capelli mentre il mio Momi mi porta in giro sulla lambretta.
-Seee, sogna sogna. Innanzi tutto tu non c’entri in quella gonna vitino di vespa e poi devi ancora finire di pagare le cambiali per la casa e già pensi di farne per la Lambretta? Vieni via dai e smettila di sognare ad occhi aperti.
Si stanno allontanando e… non mi hanno fatto neanche un complimento. Hanno solo criticato… io mi sono fatta bella per loro. Si, d’accordo, mi hanno fatta bella, ma almeno un piccolo apprezzamento per i capelli, per il trucco, per… arrivano altri. Dai questa è la volta buona!
Allora, vice direttore, lei curerà soprattutto questo settore, sì questo, dell’abbigliamento e della cosmetica.
Cerchiamo di attirare la clientela tra la donna che si veste ancora al mercato e quella che si veste alla boutique, ma che vorrebbe qualcosa per tutti i giorni perché più comodo nonché più abbordabile per le sue tasche.
Mi raccomando: è un settore molto delicato ed in grande espansione.
Le ho affiancato le commesse più capaci e più persuasive perché sa, è difficile convincere una donna che quello che vede le sta meglio di ciò che indossa. Or dunque, al lavoro e buona fortuna.
Ah, questo è il vicedirettore dello stabile. Carino, azzimato, sguardo intelligente con quegli occhialoni… dovremo lavorare insieme. Siiii, è una sfida che colgo volentieri!
“Bah, avrei preferito l’ambiente scolastico: i figli si fanno sempre e perciò grembiuli, astucci e quaderni si venderanno sempre. Mi ha dato un settore delicato ed importante: lo so che questo direttore è un arrivista e che vorrebbe inondare Milano con i suoi vestitini e i rossetti e i rimmel, ma l’impresa è ardua, in quanto ancora vengono viste come frivolezze, e…

IL PRANZO DI NATALE DAI NONNI

Ogni anno, immancabilmente, andavamo il giorno di Natale a pranzare dai nonni.
Questo, per me e mio fratello, era un vero e proprio evento: infatti non vedevamo l’ora che venisse il 25 dicembre per assaporare, in una sola occasione, l’ebbrezza di ingurgitare 20 mila calorie, così potevamo fare il sequel del famoso romanzo di Giulio Verne “Ventimila boli sotto i tavoli”.
I nonni vivevano in una casetta in campagna, nella periferia del paese dove era nato mio padre. All’epoca non esistevano gli agriturismo, in quanto ogni casa rurale produceva tutto l’occorrente, ed era fortemente autonoma (da un punto di vista alimentare). Per cui il menu non era particolarmente vario e per anni è stato sempre lo stesso, quasi fosse inciso nella pietra:
Antipasto: stracciatella di uova (buonissima), realizzata con circa 80 uova di volatili vari (forse anche di struzzo, ma non ne abbiamo mai avute le prove). Per sbatterle, la nonnina si faceva prestare la mulazza dal vicino, noto muratore.
Primo piatto: fettuccine all’uovo (rigorosamente tagliate a mano) con uova, farina e pomodori casarecci; il sugo era guarnito di vari tipi di carne: salsicce, spuntature di maiale, muscolo di vitello, interiora di gallina, quarto di bue, un opossum, ossobuco di dinosauro, narici di cavalla stanca, l’intera piccionaia. Veniva messo a bollire la sera prima per circa 12 ore, raggiungendo così la densità del magma lavico di un vulcano.
Tra la prima e la seconda portata mio padre e il nonno parlavano spesso di calcio o di politica, arrivando però solo in quest’ultima a vette di puro idillio: l’uno diceva sempre “quando c’era lui”, l’altro “addà venì baffone!”. Nel dialogo però irrompeva sempre la nonna che, dimostrando il suo acume storico e politico, ad ogni volta che sentiva la parola “addà venì..”, sentenziava: “non si dicono le parolacce a tavola!”
Dopo l’intermezzo politico-sportivo, arrivava l’agognato secondo piatto, il quale altro non era che arrosto misto di carne alla brace (o al forno, ma solo per gli impuri di cuore). Siccome i nonni erano dotati di caminetto, questo era perennemente acceso (come un altoforno, ma molto più caldo), per cui l’abnorme produzione di brace doveva per forza essere utilizzata per carbonizzare tutti gli animali possibili che giravano per l’aia, incluso un braccio del postino Filippo (che lui chiamava Fulippo), che stava sulle balle al nonno. Cominciava sempre il vegliardo a far (finta) di cuocere i vari pezzi, per poi passare a mio padre il caloroso onore, fino a me, con conseguente cottura di tutto un po’ (ogni anno mi venivano due uova sode di quelle…). L’unico apporto di mio fratello consisteva nel chiedere se c’erano le spuntature di maiale, altrimenti non era carne alla brace D.O.C.G.
Seduto finalmente a tavola, mentre addentavo il primo cosciotto di brontosauro, il vecio esclamava: oh, non vi ingozzate che dopo ci sono le cotiche con i fagioli! Tanto alla fine ci beviamo un liquore alla Genziana che fa con le sue mani la comare Agnese, che manda giù tutto (stura anche i water, avrei aggiunto, ma poi mi sarei giocato la paghetta settimanale per un mese nonché l’emolumento natalizio dei nonni, che mi passavano di nascosto come se fossero dei pusher). A tale diktat, la statuina raffigurante la Madonna nel presepio ebbe di nuovo la nausea, mentre San Giuseppe si unì alla tavolata.
Dolce: ciambellone bicolor della nonna. Mia madre si raccomandava di non  portare o a far girare altri dolci che altrimenti la nostra ava si sarebbe offesa ma noi tranquillamente ci passavamo sotto la tavola fette di panettone, come i carbonari.
Dopo queste pingui libagioni (che avrebbero tranquillamente sfamato la Sesta Armata assediata a Stalingrado), c’era il caffè. La “bevanda del diavolo” non era che un pallido ricordo, dato