Marco Pent

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Marco Pent

Marco Pent è nato a Sant’Antonino di Susa (Torino) nel 1952. Sposato, ha tre figli. Già maestro elementare, amante della musica. Ha pubblicato le raccolte di poesie “Guazza” (1979), “Pensieri di Borgata” (1986), “Spicchi di luna” (1990), un’autobiografia della sua infanzia “Canto di Primavera” (2012) e il romanzo “La vendetta di Fred” (2018).

CAPITOLO I

“Non è suo figlio quello con il passamontagna rosso e il maglione giallo?”.

Le mani di suo padre tremavano nel leggere la scritta sulla foto. E subito gliel’aveva sbattuta sul piatto ancora vuoto all’ora di cena.

Allora?

Era trasalito e sbiancato come un lenzuolo. Top della sfiga quella sera indossava proprio quel maglione giallo!

Papà, è stata la bravata di una volta! E sapeva di mentire, ma in quell’istante non trovava altre parole, o almeno sperava di concludere il dialogo con meno sfuriate possibili.

La bravata di una volta? La bravata di una volta? Bravo! Hai decisamente elevato il tuo status. Mannaggia a te figlio disgraziato! Dalle bombolette ai sassi sull’autostrada! Ma che cazzo di figlio mi ritrovo? Un figlio fuori di testa, porca miseria! Potevate ammazzare qualcuno!

Poi se n’era andato sbattendo la porta, rientrando subito dopo con il diavolo in corpo: Adesso mi dici chi erano i tuoi amici!

E lo minacciava con l’indice davanti alla punta del naso, rimbalzandolo per aria come un direttore d’orchestra fermo sulla stessa nota.

Begli amici che hai! Ma io non so! Non capisco! Ma sei scemo o lo fai?

Quella volta dovette spiattellare il nome di tutti per farlo smettere di imprecare e urlare all’inverosimile.

Eppure era incredibile, e sarà stata la situazione, ma sentiva un malessere profondo per averli traditi. Ogni volta che saliva con loro su un ponte, immancabilmente si era sempre ripetuto che sarebbe stata l’ultima volta.

Poi si lasciava invischiare da quel desiderio adrenalinico di spaventare.

Sì. Solo spaventare. Perché i sassi fingevano di scagliarli nel momento del sopraggiungere dell’obiettivo, ma tirandoli solo dopo il passaggio dell’auto, quando erano certi che non ne arrivassero altre, allora li lanciavano ma senza realmente pensare di fare del male.

E come diavolo potevano averli fotografati se si affacciavano al parapetto all’ultimo momento?

Ah! Forse qualcuno era poi tornato indietro!

Ma come? Sull’autostrada non è possibile invertire il senso di marcia.

Sta di fatto che il giorno successivo, anche gli altri avevano avuto i genitori informati ed avevano ricevuto le annesse scenatacce e rimproveri similari.

Comunque l’avventura dei cavalcavia si concluse senza colpo ferire e anche la vicenda della foto non ebbe più un seguito.

 

Alla stazione non c’era anima viva. Erano le sei e trenta del mattino di un sabato d’agosto, un giorno come tanti per la maggior parte dei planetari, ma non per lui.

Quel giorno avrebbe voluto dormire fino a mezzogiorno e invece era in piena fibrillazione per quella misteriosa convocazione dell’avvocato.

Non aveva chiuso occhio tutta la notte e s’era pure alzato un paio di volte per colpa dell’antifurto del vicino che pareva impazzito.

Andiamo una settimana alle Canarie, posso affidarti la casa?

E come già nell’occasione d’altre vacanze aveva fatto il guardiano della più graziosa villetta della borgata.

Non preoccuparti, ci penso io, ma sabato mattina vado dall’avvocato.

E già si sentiva alleggerito da quel peso.

Spero non mi trattenga a lungo.

Ah. Queste cose non finiscono mai.

Poi continuò curioso.

È sempre per la tua casa?

Non lo so. Può essere. L’altra volta mi ha detto che i miei erano in regime di separazione dei beni e tutta la proprietà sarebbe diventata di mia madre. Ma non credo voglia parlarmi di questo. Me lo avrebbe accennato. E al telefono non ha voluto sbottonarsi.

Sei ansioso?

Che dirti! Rispose di getto.

Alla fine, a ben pensare, non avrebbe dovuto tormentarsi più di tanto, non era certo la prima volta che andava in quello studio al primo piano di Via Sacchi e comunque, in quell’istante, proprio non aveva intenzione di appesantire il fardello delle inquietudini che già lo perseguitavano giornalmente.

Intanto doveva anche rivedere alcune pagine della tesi in Criminologia “Sintomatologia adolescenziale di un omicida, così il badare alla casa improvvisandosi tuttofare gli era diventato il passatempo più normale del mondo.

Avresti dovuto guardare e aiutarmi quando lo facevo io, così ora sapresti come fare.

Era sempre lì che andavano a parare.

Ma per più di dieci anni quelle parole non s’erano mai sentite. Piuttosto dominava il “Lascia stare, faccio io”.

 

Sentì annunciare l’arrivo del treno e affrettò l’andatura nel sottopasso tutto imbrattato di scritte d’ogni natura che qualcuno e forse anche lui, anni addietro, avrebbe definito abbellimenti urbani, mentre altro non erano che volgari porcherie.

Infatti qualche notte, con certi amici e armato di passamontagna e bombolette, l’aveva pure trascorsa ad abbellire il paesaggio, non di quel sottopasso, ma d’altri posti in giro per la Valle.

Sicuramente alle prime luci dell’alba di qualche fine settimana, con in corpo qualche lattina di birra e un po’ di fumo s’era arrivati a farne di grosse. Ma era passato quel tempo e anche quello successivo, il più devastante.

Ogni stagione ha i suoi frutti, verdi, acerbi, maturi e anche marci.

Lui poi ce l’aveva fatta a uscire dal tunnel, accorgendosi però troppo tardi che con l’acqua sporca forse aveva buttato anche il bambino che era stato, e in cuor suo si vergognava di quei lontani trascorsi, rammaricandosi sempre di non aver avuto il coraggio di mandare a quel paese quegli amici d’avventura che una notte in caserma l’avevano pure accusato di essere il lui il capobanda.

Per fortuna, tutti incensurati, se l’erano cavata con una lavata di capo del maresciallo e una simbolica multa ai genitori.

Poi aveva trovato altri compagni di merende che invece di “sbombolare” sui muri, si divertivano a buttare sassi dai ponti dell’autostrada, e proprio dopo qualche allucinante adrenalinica bravata del genere era arrivata a casa per posta, dentro una busta senza mittente, quella fotografia con la scritta.

Sua madre, rincasata tardi quella sera, non lo seppe mai e forse fu meglio così, che poi era uguale, tanto cosa gliene importava di lui a sua madre.

Una madre dovrebbe essere madre per sempre, ma a volte le traversie della vita cambiano il cuore e la carne diventa pietra, poi chissà, di nuovo carne, ma non sempre.

Lui di coccole ne aveva ricevute forse anche troppe, da piccolo. Ecco, forse le eccessive premure e quel che ne segue, l’assenza di responsabilità, la pappa fatta e sempre tutto pronto, i tanti “lascia stare, faccio iopotevano averlo spinto a ricercare una realtà in cui sentirsi inventore, artefice e creatore, qualcosa di elettrizzante e adrenalinico che spingesse la quotidianità oltre il normale, al di là della routine del “così fan tutti”, nella folle speranza di dare un senso alla vita, o meglio, nella speranza di darle un senso più folle. E “folle”  l’avrebbe capito dopo, per fortuna ancora in tempo per raddrizzare un pezzo della sua vita.

Si domandava ora se fosse stato lui il responsabile della catena di avvenimenti che avevano colpito una famiglia, per più di dieci anni “normale”, se per normale s’intende papà, mamma, figlio, nonni tutti vivi e vegeti, facce sempre sorridenti, messa la domenica con tanto di comunione senz’altri interessi religiosi. Eppure il bandolo di questa aggrovigliata matassa ancora non riusciva ad afferrarlo.

Come era iniziata la china dello sfascio affettivo che li aveva travolti?

Si sentiva stupido a voler ricercare la sorgente del torrente impetuoso che aveva trascinato in mare gli appigli che l’avevano visto crescere bimbo coccolato e viziato. Ma lui ad un certo punto si era ribellato a tutto il ben di dio ricevuto, senza muovere un dito, per il solo fatto di essere venuto al mondo.

Già! Venuto al mondo! Mica avevano domandato il suo parere per metterlo al mondo!

Ma in fondo non era poi stato accolto tanto male: sua madre figlia unica, suo padre pure e lui idem; figlio e nipote unico di famiglia non ricchissima ma certo dignitosa, allevato nella bambagia da due genitori e quattro nonni iperprotettivi.

Ma poco a poco il suo sorriso aveva dato qualche segno di spegnimento. La sua verve nell’affrontare ad ogni alba il cammino della giornata aveva poco alla volta ceduto il passo prima all’indifferenza verso la navigazione nell’oro, poi ad una vera e propria insofferenza alle attenzioni esasperanti che i familiari gli tributavano. Anzi, più si faceva grande e più sembrava rimpicciolire ai loro occhi, tanto che anche l’autostima era scivolata lentamente sotto i piedi.

So farlo da solo! Diceva lui.

Sì, come quella volta… Si sentiva rispondere.

Alla fine si era convinto che proprio non volessero lasciarlo crescere, quell’unico nipote, o che l’avrebbero voluto far crescere a modo loro. Con la camicetta e i calzoni sempre stirati e senza macchie d’erba ai ginocchi, col risultato che i suoi compagni potevano ruzzolare nell’erba del prato nei giardini della scuola e lui no. Lui e altri due, che avevano i genitori fotocopia dei suoi. Manco per idea!

Non immaginava certo, ai tempi della scuola elementare, che le macchie verdi sarebbero state il primo indizio della sua insurrezione contro il perbenismo e la normalità, contro l’unica ambizione di trovare un lavoro che desse quattrini, contro una società falsa e aristocratica, buona solo a promettere paradisi irrealizzabili.

E così lui i paradisi aveva cercato di raggiungerli in altro modo, ben consapevole di doversi nascondere e di avere una doppia vita.

Finché poté durare e le carte non vennero allo scoperto.

 

Ecco, era arrivato.

Salì lo scalone del palazzo, primo piano a sinistra, Dott. Pietro Palumbo – Avvocato.