Miguel Capriolo

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Tra montagne e mare ... il mio luogo natio fu reso ostile da una sorta di maledizione ... fu una tra le più famose baronesse d'Italia, trafitta a morte dal padre, che prima di spirare, avrebbe lanciato un'anatema all'indirizzo dell'intera popolazione. Così, quel suo ultimo grido disperato: "cani carinisi" ... sembra aleggiare ancora oggi  tra la sua gente, rappresentandone quasi l'essenza. In questo luogo non propriamente "ospitale", si inserisce la mia storia e ancor prima della mia, quella della mia famiglia.

Miguel Capriolo

Torino è una città strana a volte rimane immobile per anni senza farsi assolutamente desiderare ma a volte ti strabilia e lascia il segno. Così, quel giorno, proprio alla fine di una giornata di lavoro che nel periodo estivo ti permette di tornare a casa ancora con l’ultimo chiaro del giorno, camminando ormai nei pressi di casa sul solito marciapiede di sempre, inconfondibili mi giunsero all’orecchio le note di un tango. Un tango perfettamente eseguito. Un pianoforte solo. Alzai lo sguardo alla ricerca della fonte dalla quale provenisse quel suono mentre i miei ricordi cominciavano a volare e mi sorpresi quasi, nel cercare nel cielo ancora chiaro le nuvole della mia Buenos Aires. Ma i miei occhi, abbassandosi nuovamente, ripercorrevano ancora una volta quelle discese di grondaie e finestre da palazzi ottocenteschi e le vie perpendicolari e parallele senza soluzione di continuità come quella nella quale stavo fermo come uno scemo da qualche minuto, era come se un filo invisibile avesse collegato in quegli ’istanti due terre a me care: quella natia, l’Argentina e quella dei miei, l’Italia. La mia passione per quella musica come potete immaginare arrivava da lontano, dai barrio della mia infanzia e degli anni passati. Una poesia in musica, dove le storie di ogni epoca, di ogni persona, di ogni cittadino argentino sulla terra, rivive ogni volta come proprio patrimonio le note di qualunque tango suonato nel mondo. Un viaggio magico tra i continenti che ogni volta, ineluttabilmente, ci riporta a casa.

SULLE NOTE DELLA CUMPARSITA

Le sue mani scorrono sui tasti del pianoforte e gli occhi viaggiano nel tempo. Sentimenti chiusi gelosamente nel cuore.
Ma il tango a novantun anni acquisisce un sapore diverso, una specie di valore aggiunto. Ogni nota, un ricordo. Ogni angolo, un suo abbraccio. E il ballo a quei tempi era magicamente guidato dai  solchi dei vinili. Il tango era quel legame profondo che narra storie comuni. Era la felicità se vogliamo. Era il “Desde el alma”. La fuga dalla vita quotidiana. Una sorta di vittoria serale.
Ora le dita si fondono ai tasti, e la Cumparsita vola come un gabbiano nell’aria e si diffonde. Esce dalla finestra socchiusa della stanza e scorre in strada come un fiume in piena e poi risale scalando muri opposti sino a intrufolarsi tra dirimpette finestre altrettanto socchiuse.
Il Saroja ha un sussulto. Da quella poltrona sulla quale pigro legge il giornale ora tende l’udito. Qualcosa gli è familiare. Vecchie partiture. Quelle che suonava quando imparava musica da un allievo di Toscanini e chiamava gli amici la sera e tutti scendevano, ognuno col suo strumento. Una chitarra. Un violino. Una viola. Note lontane quelle, e simili, si univano e disunivano come adesso, tra quel ricordo lontano e quel suono entrato senza neppure bussare.
Il tango ha un potere profondo. Si allarga e si diffonde. Penetra. Avvolge. Coinvolge. Il Saroja si alza. Posa il giornale e percorre quei tre o quattro passi tra lui e la finestra, scosta la tendina bianca con due dita e sbircia giù la gente camminare.
Ma qualcosa pare accadere proprio in quell’istante, all’unisono come per incanto, parrebbe ad un ordine oscuro della musica, che la gente venga colta da un fremito.
Dentro l’anima le corde e le vene iniziano a vibrare. Qualcuno si ferma. Qualcuno alza gli occhi interrogandosi, e qualcuno incontra lo sguardo dell’altro.
Con aria sorpresa quel mezzo sorriso diventa sincero e l’uno già prova due passi. E poi altri due. Porge la mano alla sconosciuta e inizia a ballare prima da solo…
E la via si trasforma.
Lei fa due passi. Prima da sola. Poi allunga il braccio allo sconosciuto.
Ma il Siroja conosce già tutto. Lo sa. Il tango volteggia, arieggia, echeggia ed è una storia quella già vista. Vissuta. Accarezzata.
Qualche metro più in là Josè è seduto comodamente al tavolino del bar lì sotto e pensa tra se e se.
La copa de vino con l’ultimo sorso in attesa.
E la musica entra.
D’istinto si volta.
Fuori in vetrina la gente è un’onda.
Socchiude gli occhi.
L’ieri e l’oggi accavallati a un filo di corde di violini e contrabbassi riaffiorano. Pianoforti e nuvole mosse di fiati e brezza. Oggi soltanto le note di un piano ma ai suoi tempi l’orchestra suonava e le storie di ieri diventavano quelle di oggi.
Tessere assorte di amori vissuti e nostalgie argentine. Buenos Aires, Villa Urquiza, Almagro, San Telmo, La Boca, Barrancas.
Ore e ore notturne milongueando in vecchi barriales pieni di fumo e alcool.
La Cumparsita è un vate invisibile di poesia unica. L’unica grande scusa. L’unico vero amore di mille amori. Uno per sera. Si supieras que aùn dentro de mi alma conservo a quel recuerdo que tuve para ti. Se sapessi che dentro la mia anima conservo ancora quell’ affetto che avevo per te.
Ora, in strada la nuova coppia volteggia.
Neppure si conoscevano fino a qualche minuto fa ed ora già recitano la complicità di strada. Quel tango argentino nel cuore del tango stesso.
Si avvicinano. Si respingono. Si allontanano. Si riavvicinano. Si abbracciano e parlano senza dire nulla e parlano il linguaggio dei gesti. E la gente a raccolta fa un cerchio battendo le mani. E’ un battere secco quello, un battere sordo. Il ritmo è deciso.
Josè e la sua copa. Immobili lì come una statua.
Ora un clacson suona. Un vecchio pullman pretende la strada. La gente non guarda. Poi apre le porte e qualcuno scende ed inizia a ballare lì sulla strada, davanti a quel vecchio motore bollente. E Josè lo ricorda.
La dipinsero a nuovo quella vecchia corriera scassata e ornata coi firuletes, quelli di Aristides. Dipinta a ballerini e strumenti e cafè, come ombre cinesi a contrasto. Quei pullman d’altri tempi erano arte circolante in quei pomeriggi perennemente estivi, quando le milongas riposavano portando i turisti di giorno, e alla sera i tangheros festanti.
Ecco Maria.
Si fa largo tra la folla inebriata e Josè che si alza andandole incontro.

TORINO # 2

Torino è una città strana a volte rimane immobile per anni senza farsi assolutamente desiderare ma a volte ti strabilia e lascia il segno. Così, quel giorno, proprio alla fine di una giornata di lavoro che nel periodo estivo ti permette di tornare a casa ancora con l’ultimo chiaro del giorno, camminando ormai nei pressi di casa sul solito marciapiede di sempre, inconfondibili mi giunsero all’orecchio le note di un tango. Un tango perfettamente eseguito. Un pianoforte solo. Alzai lo sguardo alla ricerca della fonte di quel suono mentre i miei ricordi cominciavano a volare e mi sorpresi quasi a cercare nel cielo ancora chiaro le nuvole della mia Buenos Aires. I miei occhi, abbassandosi repentini, riconoscevano nuovamente quelle discese di grondaie e finestre da palazzi ottocenteschi in quelle vie perpendicolari e parallele senza soluzione di continuità come quella nella quale stavo già fermo, come attonito da qualche minuto. Era come se un filo invisibile avesse collegato in quegli ’istanti due terre a me care: quella natia: l’Argentina, e quella dei miei: l’Italia. La mia passione per quella musica arrivava da lontano, dai barrio della mia infanzia e degli anni passati. Una poesia in musica. Benito Quinquela Martin, diceva: “…Ed ogni volta che sono partito ho portato con me il mio barrio, che ho lasciato nelle città del mondo. E’ stato così, come un viaggiatore che viaggia con il suo bagaglio sulle spalle o come questi alberi trapiantati che danno i frutti solo se hanno le radici ben salde alla terra dove sono nati e cresciuti”. Ed io aggiungo: “Ogni viaggiatore porta con se un tesoro immenso nel luogo dove, viandante, cammina, arricchendolo passo dopo passo..Qui, in questo racconto, come in altri miei racconti, si parla di questa poesia, dove le storie di ogni epoca, di ogni persona, di ogni cittadino argentino, rivive ogni volta come proprio patrimonio le note di qualunque tango suonato nel mondo. Un viaggio magico tra i continenti che ogni volta ineluttabilmente, mi riporta a casa.

VOLVER

Le valige erano pronte da tempo.
José in quella mattina ancora buia tirò la cinghia nella fibbia e sorrise. Finalmente.
Pensava al tempo, alle storie scritte su fogli di racconti, poesie e lettere infinite agli amici e parenti. Ricordi di tempi passati e vissuti. E quella ragazzina che salutò per sempre ai tempi del fazzoletto e della nave al porto; quando, se ci si lasciava era per sempre; senza numeri di cellulare lasciati al volo o wazzap infiniti di foto e abbracci virtuali, o social, giusto per non perdersi mai di vista. Ma nei primi anni ‘60 erano altri tempi quelli, e la biondina rimase lì per sempre quasi conservata nel freezer dei ricordi o appesa tra un bicchiere di vino in più, di una sera qualunque di una vita comune. Ma ancora pochi giorni e tutto sarebbe tornato, non certo la biondina che ormai di anni ne erano passati e il tempo volato.

Era una bella mattina di agosto al porto de La Boca, sulle rive del Riachuelo nei pressi dell’imbocco nel Rio de La Plata. Lei era rimasta lì, nello stesso quartiere che alla fine dell’ottocento era già degli immigranti genovesi che le diedero quell’aspetto di sempre. Quelle vecchie case popolari, basse ed irregolari in lamiera ondulata colorata a tinte vivaci costruite e dipinte con scarti di materiali e di vernici recuperati nei cantieri navali. Era rimasta lì Maria, trecce bionde e capelli al vento con un fazzoletto in mano, e lui sulla nave a piangere senza darlo a  vedere. Aveva diciassette anni.
Quella notizia era arrivata improvvisa. “Si parte, si va via”. Gli aveva detto la madre quella volta.
Si. Via da Baires… Andiamo via perché dobbiamo andare, torniamo in Italia.
E in questa frase, stava tutto l’intercedere di chi non è abituato a fare tanti discorsi.
“Ma di quale terra parli”? Disse José prendendo il coraggio con le mani.
Non aveva mai risposto così a sua madre. Ma quella volta quasi sbottò.
“Io sono nato qui ma’. Di quale terra parli. Di quella di cui parlo questa seconda lingua che mi hai insegnato? Allora te lo dico in italiano!”
E lo fece apposta a dirlo in quel modo.
“Per me non è nulla, la tua terra… Io sono nato qui a Baires e da qui non me ne vado”.
Poi rimase in silenzio quasi a non credere alle sue parole e a quel tono da uomo cresciuto in fretta.
Poi scoppiò in un pianto sommesso di ragazzo.
La madre lavava i piatti, girata verso l’acqua aperta, piangeva. Ma sarebbero partiti comunque. Era deciso.
José pensò ai luoghi di cui non conosceva neppure le strade. Neppure la voce del vento di Baires.
Si perché quando si partiva a quei tempi era come se le radici di una pianta venissero sradicate bruscamente. E lui era un albero giovane che sarebbe diventato salice di pianura, e Torino una città improbabile, un barlume di chiaro, ma per il resto era buio.
Quell’origine italiana che in quel momento avrebbe voluto rinnegare con la mano sul fuoco piuttosto che partire in quell’istante… Ma si doveva partire.
Non è facile spiegarlo, si è un po’ come apolidi nel mondo noi che siamo italiani all’estero… Quanto in Italia… eternamente argentini. Lo raccontai già in un altro racconto, questi miei pensieri dedicati alla mia terra infinitamente ricordata.
Perché le origini chiamano e il suolo ove sei venuto al mondo fa fatica a lasciarti andare. Quando ci riesci ti porti dietro tutto. Un bagaglio di ricordi in quella fotografia sempre in tasca, tu a Buenos Aires negli anni ’60.
Una donna dalla voce forte accompagnata dal figlio con il bandoneon, delizia la gente con vecchie canzoni.

VIBRAR DI NOTE NELL’ UNIVERSO

In una fresca giornata autunnale Lin Ran decise di uscire di casa per una passeggiata. Appena fuori avvertì un suono protrarsi in ogni angolo,era  l’eco della sua voce emozionata davanti alla meraviglia che vedeva . Si incamminò meditando per un sentiero vicino al paese. Mille domande affollavano la mente. Dove vivere?. Con chi vivere?. Che fare nella vita?. Qual è il potenziale della sua creatività?. Non si rese conto, era entrato in un bellissimo bosco. Lo avvertì dal suono delle foglie mosse dal vento: un sussurro ed una danza festosa. Rimase incantato dalle note. La sua meraviglia aumentò procedendo lungo il sentiero. I suoi occhi videro gli uccelli danzare. Il loro chiacchiericcio era magico. Note e voci si adagiavano su un pentagramma invisibile. Dentro di sè sentì crescere una stupenda sensazione. Era un movimento, una marea, alta e bassa, che smuoveva tutto. Respirò a pieni polmoni ed in quel preciso istante, mentre li riempiva, come se risucchiasse qualcosa di invisibile, giunse una brezza fresca, gradevole. Ebbe la sensazione di attraversare un ruscello  con quella godevole acqua cristallina, una sensazione di appartenenza. Chiuse gli occhi ed ecco che una voce lo inebriò. Era come se le piante si fossero messe a cantare. No, era il loro spirito. Aprì gli occhi e si ritrovò in una radura. Davanti a lui musicisti suonavano una magica melodia che incantava, rapiva, smuoveva mille sensazioni. Preso dal vortice delle pulsazioni interiori si mise a danzare ad occhi chiusi. Era un fluire totale guidato dalle percussioni , dallo hang le cui note magiche gli diedero la sensazione di essere accarezzato dai rami e dalle foglie che si  muovevano con lui. Non era così, anche se avvertiva i loro respiro. Erano gli abitanti limitrofi attratti dalla musica in quel luogo non comune. Avevano lasciato le loro abitazioni  trasportati da un invisibile pifferaio magico. Su quell’ onda di benessere i loro corpi iniziarono a muoversi armoniosamente. Avvertirono un’ ondeggiante leggerezza, come giunchi accarezzati dall’aria. Una musica cinese si diffuse nell’aria, e Lin si trovò a creare una danza di omaggio alla natura. Come se stesse accarezzando le onde del mare le sue mani scorrevano sui tronchi sentendo sotto i suoi polpastrelli i nodi, e venature. Si coricò per terra lasciandosi trasportare da quella meravigliosa sensazione di appartenenza all’universo. Fu lì che  Lin Ran capì il significato del suo nome: “Spirito della Natura”. Si sedette ed ammirò lo spazio circostante. Intorno a lui tutto era danza. La gente, i bosco, tutti erano UNO. Si unì a loro sentendo la musica del cuore.

MEZZI DI LOCOMOZIONE ED ALTRE FACEZIE DELLA MIA ADOLESCENZA ARGENTINA.

Da piccolo giravo la città in colectivo, che poi sarebbe l’autobus lì in Argentina. Era una magia pura, una danza di colori che si tuffano nel fiume del traffico cittadino. Ogni linea un colore diverso e non solo, il tocco d’artista, il fileteado.
Quando l’autobus di Buenos Aires (il cosiddetto colectivo porteño) cominciò a non avere più la dimensione di un’auto per passare ad essere una specie di camion modificato per trasportare gente, cominciò ad essere “filettato”. Linee che diventavano spirali, colori forti, effetti tridimensionali,  ombre e prospettive.
Luci ed ombre risaltavano con tocchi delicati,  lucidi e sfumati, diventando la danza dell’arte e della poesia. La danza di una mano che delicatamente crea e vive la sua musica. Foglie, fiori, bandierine nascevano per magia, frasi ingegnose, proverbi poetici,  aforismi scherzosi, emotivi, filosofici, in lunfardo e con lettere ornate, gotiche o corsive, esprimevano la loro scherzosa voce.
Filete, filetto, filum filo bordo di una modanatura, arte a una linea sottile che serve da ornamento.
Spettro di colori vivaci, marcatura di ombre e chiaroscuri creavano fantasie di profondità, filigrane, arabeschi, nappe, guardie, pergamene, pissidi, cornucopie si univano festose alla ronda. Occhi inebriati di gioia e piacere come lo erano e lo sono i miei, ancora oggi nel riviverlo e raccontarlo, perdendomi in queste parole. Il fileteado oggi, come il tango, è diventato “Patrimonio dell’umanità”.
Erano autobus verdi o rossi o gialli che a parte i colori era perfettamente identici, con due porte a soffietto per estremità perfettamente identiche.
Dal retro si usciva e davanti si entrava. Affianco all’autista, nel bel mezzo a dividere la guida alla porta d’ingresso stava – impossibile non vederlo – un traliccio di tubi, gli stessi che occorrevano come apposito sostegno e sotto a questo riquadro una serie di vani per gli spiccioli e la macchinetta ad esclusivo uso dell’autista che ad ogni passeggero che entrava controllava se avesse o no il biglietto oppure glielo faceva sul momento cambiandogli i soldi se necessario.
I colori ci accompagnavano ovunque, anche nei biglietti. Salivano davanti, dicevamo al conducente dove dovevamo andare, e lui dalla magica macchinetta che aveva accanto al posto di guida, ci dava un biglietto colorato diagonalmente, con due tinte, a seconda della tratta. Prendeva le monete e le collocava a seconda della dimensione in un’altra magica mangia soldi. Entrambe devo dire che mi affascinavano.  C’era poi una gara, fra noi studenti: “Vediamo chi è più fortunato ad avere il capicua? Ogni biglietto era numerato. Se si trovava la corrispondenza uguale di inizio e di fine, come se il numero fosse formato da due speculari, significava che eri fortunato.  Scaramanzia o un’altra leggenda di Buenos Aires?
Potete immaginare come erano lunghi i momenti