Grazia Mazzeo

Gli amici dell'Inedito Letterario > I NOSTRI AUTORI > Grazia Mazzeo

Puglia, provincia di Foggia, Rocchetta S. Antonio. 1982, pomeriggio sonnacchioso d’estate. io sedicenne dietro al banco della tabaccheria di famiglia. Poche anime in giro. Leggo Kerouac “Sulla strada” tra i pacchetti di sigarette. Nello stereo a cassette i “Blue Oyster Cult”. La scena è questa più o meno. Entra un tizio piacione, trent’anni o giù di lì, sente la musica fa una smorfa disgustata, cerca appigli per fare salotto.

“Romanzo d’amore?” Chiede. Un no secco. “Ah, quando avrai la mia età come ti piacerà Fred Bongusto.” Ok, di anni ora ne ho 52, quattro figli, con tutto il rispetto per chi ama quel genere di musica… Fred Bongusto chi? La musica che ascolto è sempre quella. Non sono cambiata di una virgola dalla sedicenne di allora. In compenso però ho scritto un romanzo che un po’ parla d’amore “Come una tempesta (all’incrocio dei venti) Booksprint edizioni. Poesie e racconti presenti in varie antologie e alcuni anche premiati. Questa è la mia quarta presenza sull’antologia dell’inedito. Beh, nessuno è perfetto… e menomale!

Grazia Mazzeo

Grazia Mazzeo nasce a Rocchetta S. Antonio nel ‘66. Dopo la maturità classica si iscrive a lettere e filosofia ma cambia idea e interrompe. Ha quattro figli. Dice di se stessa: “Non mi sono rassegnata a tenere i miei sogni in un cassetto, perché mi sono accorta che tenerceli tutti stipati te li ritrovi pieni di muffa e spesso inservibili. Ho sempre tentato nei ritagli di tempo a coltivare il mio campo semantico con tutte le mie passioni, lo studio, la lettura, e la scrittura.  Non ho mai abbandonato  la mia voglia di scrivere che è sempre stata la mia costante fissa, una  catarsi e rigenerazione.  Alterno la scrittura  ad attività manuali  dall’arte del riciclo al bricolage”. Come poeta è presente in diverse antologie anche in vernacolo e ha vinto diversi concorsi poetici. Per la narrativa, ha pubblicato il suo primo romanzo ambientato nel pre-risorgimento, nell’incrocio di tre  regioni,  Puglia, Basilicata e Campania, dove i destini di personaggi di fantasia incrociano quelli di personaggi storici “Come una tempesta… all’incrocio dei venti.  

COME LE STELLE PRIMA DELL’ORA

Stamattina, di raccontare a mia moglie il sogno che ho fatto non ho avuto tempo. Era un sogno strano assai e volevo raccontarlo a lei che tiene sempre una decifrazione a portata di mano. Ninetta, manco a dirlo, è tale e quale alla madre, ‘na majara nientemeno. Ascolta, fa certe facce e il apre il librone; sfoglia E cerca, legge e poi ti spiega finanche quello che ti volevano dire i morti venendoti in sogno.
C’è sempre un viavai di gente a casa mia, come fosse la bottega di mastro Francesco, il pizzicagnolo, ma  adesso che serviva a me il consulto, mi sono fatto fregare dalla fretta.
“Corri, corri, che la corriera sta già là in piazzetta, spicciati dai che quella figuriamoci se  aspetta a te, non  ci sta tempo.
Quando torni mi dici del sogno… cammina va’ corri che a Foggia col  casino che ci sta al catasto, ti tocca restarci fino domani per trovare tutte le scartoffie che ci servono a noi.”
E sono rimasto così, con mezzo boccone di pane che non ne  voleva sapere di scendere giù e con la testa ancora appresso al sogno che piano piano si faceva ricordo sfocato.
Non da’ retta a suonn guagliò! Mi diceva sempre papà, requia a l’anima sua e c’aveva ragione.
I sogni sfumano all’alba, pure i bambini lo sanno, mentre io in mezzo a tutta questa desolazione, tutto questo macello, sto ancora a pensare che nel sogno mio me ne ero volato sopra una stella e là mi ero fatto una bellissima casa. E  mica ci  credevo che, piccoli piccoli, quelli che vedevo giù sulla terra, mentre m’affacciavo al mio bel terrazzo in mezzo alle nuvole erano uomini simili a me e non formichine.
Non mi capacitavo  che io me ne stavo beato tra le stelle e loro s’azzannavano per un tozzo di pane.
Non da’ retta a suonn!
Sto qua, sto qua pure io, formicuccia piccola piccola, in mezzo a sta baraonda; in mezzo ai guai che ha combinato questa bastarda di guerra che hai voglia a pensarla finita, come si legge su  tutti i giornali, quando invece la verità e che sta ancora qua, la vedi e la ritrovi ovunque perché non se ne vuole più andare.
L’andata, ninnato dai trabalzi della corriera, me la sono fatta dormicchiando, però senza sogni, ma questo viaggio di ritorno, non so se per colpa di questa maledetta aria  novembrina  o per la rabbia di una giornata persa per un nulla di fatto, m’è venuta un’angoscia che manco mi  riesco a spiegare.
Mi vorrei appisolare un pochino, ma non riesco a staccare il naso dal finestrino,  come se i pensieri srotolandosi nella testa se ne andassero tutti quanti fuori sbarrandomi  gli occhi su quello che non avevo visto all’andata.
Che desolazione! Mi viene da piangere, per quelli che non sono tornati  dal fronte, per quelli che ancora devono tornare e per noi  poveri cristi che siamo rimasti…

RACCONTO SENZA TITOLO

Trasalì. Uno stiletto di luce gli perforò un occhio, accecandolo. Istintivamente si schermò con la mano, ma muoversi gli costò una fatica pazzesca, come se tutte le membra fossero tenute legate saldamente tra loro da un laccio invisibile.
Lentamente riuscì a spostare la testa e far sì che il fascio di luce non colpisse più il viso.
Lentamente gli arti cominciarono a formicolare e all’indolenzimento si sostituì un dolore sordo che lo inchiodò al suolo per qualche minuto, prima di tentare nuovamente di sollevarsi.
Fece leva sui gomiti, strinse i denti.  Dopo qualche tentativo, riuscì a sollevare il busto in modo da potersi guardare intorno.
La luce penetrava da un’apertura coperta di rovi e a mano a mano s’allargava illuminando le pietre di quella che gli parve essere una rientranza nella roccia, una caverna.
La testa gli doleva come se, conficcati  nel cranio, avesse mille chiodi roventi.
Si portò le mani alla testa, ma le ritrasse subito. Le sue dita avevano toccato qualcosa che lo aveva spaventato. Inorridito si guardò le dita che erano umide e appiccicaticce. Annusò.  Sangue!
L’odore era inconfondibile, non ci fu bisogno di esporle al raggio di luce per capire che stava perdendo sangue copiosamente; forse era qualcosa di molto grave perché malgrado la fasciatura, la ferita doveva essersi riaperta.
Sì, ma perché? Che ci faceva in quella grotta? Perché quella ferita? Chi l’aveva medicato e soprattutto, chi era lui? Niente, non ricordava nulla, nemmeno il suo nome.
Si percorse con dita febbrili la faccia cercando un appiglio a cui ancorare quella improvvisa consapevolezza in quel momento più dolorosa della ferita sanguinante.
Cosa era accaduto? Chi era se le sue mani non riuscivano a dare un’identità ai tratti del suo viso? Doveva alzarsi, uscire di lì al più presto o sarebbe impazzito.
Certo, sempre se ci fosse riuscito, senza morire dissanguato là dentro. Forse fuori c’era qualcuno. Probabilmente chi gli aveva bendato la testa e che di sicuro sapeva chi fosse.
A più riprese tentò di tirarsi su per mettersi in piedi, ma ogni volta le forze cedevano alla spossatezza. Aveva perso e continuava a perdere troppo sangue, ogni movimento, s’accorse, gli costava una fatica immane, fosse anche solo il pensiero di farlo.
Sarebbe morto là dentro. Bel posto per tirare le cuoia! – pensava – Bello davvero. Un anfratto con tutta probabilità sotto qualche montagna sperduta.
Solo. Intirizzito. Ferito a morte… Chissà da chi o che cosa.  Lontano forse dalla sua famiglia. Sempre che ne avesse una! E con i pensieri che si inseguivano freneticamente in testa!
Doveva attendere la morte, senza neanche tentare di uscire?
Strisciare, sì, forse strisciando poteva farcela, forse!
Il dolore gli fece perdere i sensi, ricadde con la faccia sulla terra battuta.
Qualcosa di ruvido e caldo gli strofinava una gota.
Spalancò improvvisamente gli occhi e si ritrovò a fissare due occhi di brace.
Un attimo di smarrimento. Perduto nei meandri della follia pensò ai demoni che se lo erano venuto a pigliare…

TUTTO HA UN SENSO

Aveva solo bisogno di stare da sola, mettere quanta più distanza fosse possibile tra ciò che le sembrava una recita e quella che sapeva essere la dimensione giusta dove lasciare andare come pecore al pascolo i propri pensieri, liberi anche d’incappare nel filo spinato di quell’improvviso dolore.
A mano a mano che si allontanava, quel dolore che abbrancava il suo cuore, ad ogni passo, allentava la morsa e diveniva più lieve, come se l’aria lo stesse diluendo nei suoni di quel pomeriggio assolato. Sì, sempre più sopportabile, sino a ridursi a un pizzicore, qualcosa simile alla puntura di un insetto, ad un lieve prurito.
Lei era lì ora. Percepiva la sua presenza. Camminava al suo fianco tra quella sterpaglia, una presenza tangibile, un alito di vento, un frinire di grillo.
Era lì e non dove l’aveva lasciata, dietro una lastra di marmo su cui in seguito avrebbero scritto il nome.
Era con lei lungo quel sentiero che conosceva a memoria, in quel cammino sacro per lei al pari di  quello per arrivare a Santiago, e non, tra abbracci vuoti e parole vestite a lutto.
Quante volte l’avevano percorso insieme quel sentiero, quante volte erano state lì nei giorni in cui il mare sfoggiava il suo sfolgorante e multicolore vestito estivo, per quanti anni l’avevano raggiunto a settembre tra una moltitudine di gente festante e quante volte vi si erano rifugiate nei giorni in cui desolata la spiaggia piangeva in solitudine, contando lattine vuote e buste di plastica.
Ogni volta prima di arrivare, come sempre  provava quello strano moto d’impazienza che le faceva affrettare il passo, come se il cuore volesse uscire dal petto e percorrere quegli ultimi metri, libero dalla zavorra del corpo. E anche quella volta era arrivata, col cuore ancora nel petto, ma senza di lei.
Ovunque i rovi e la vegetazione, metro dopo metro s’erano conquistati lo spazio sino a divenire padroni incontrastati di un  inganno che il tempo e l’incuria avevano ordito ai danni di quello che per lei era il posto più bello del mondo, l’unico posto in cui si sentiva parte di un immenso disegno divino.
Come le stelle del firmamento, come la luna, come il mare…come una donna. Ma non era entrare dentro quelle vestigia ciò che voleva. Le bastava solo essere lì e sentire sulla sua pelle quella strana emozione che non sarebbe mai riuscita a tradurre a parole.
Si cercò un posto all’ombra e aprì lo zaino. Frugò per un po’ nel disordine e cavando di lì un libro dalla copertina blu, lo aprì, stando attenta a non far cadere la busta che aveva messo tra le pagine perché non si sciupasse. Una busta grande quanto un foglio di computisteria piagato per metà, che di certo conteneva più di un foglio visto lo spessore e il peso che ne sentiva tra le mani.
Era tutto quello che le aveva lasciato, o meglio, quello che lei riteneva importante. L’aveva trovata nel cassetto del comodino, quando cercava un rosario da metterle tra le mani, la corona che l’avrebbe accompagnata nel suo cammino verso l’eternità.
Quella busta era stata messa lì apposta sapendo che sarebbe stata lei sola  ad aprire il cassetto. C’era scritto sul retro a caratteri grandi con quella scrittura che lei ben conosceva, chiara leggibile e bella, come quella di chi ha la mente scevra da ombre e rimpianti per “Marina”. L’aveva quindi presa prima che altri, soprattutto sua madre, la vedessero e ne chiedessero conto  e, l’aveva infilata nello zaino, aspettando il momento per poterla leggere in pace.
Nella calura pomeridiana di giugno, sotto un azzurro lacerato solo da ali di rondini inquiete, immersa nel silenzio punteggiato dal chiacchiericcio…

LA PROMESSA

Due mesi, due miserabili mesi soltanto! Manco il tempo di piangerla che già Il rimpiazzo era pronto come se suo padre se lo fosse tenuto nascosto dentro al cassetto del comò tra le lenzuola di mamma.
E che diavolo, che razza di scherzo era quello.
<< Domani alle dieci mi sposo!>>
Così, di punto in bianco se ne era uscito il padre mentre Amalia impastava come meglio potevano le sue braccia  da quindicenne il pane per tre giorni.
Senza parole l’aveva lasciata
<<Comportati come si deve, prendi i vestiti buoni e prepara i piccoli in tempo e tu acconciati bene i capelli coi ferretti. Da domani si cambia registro e non ti scordare che mamma la devi chiamare a Luisella, diccelo pure ai piccoli, mi raccomando>>
Era rimasta con le mani che serravano forte la pasta in mezzo alle dita e con  quel groppo alla gola  che le aveva impedito di dire manco una mezza parola.
E menomale,  le parole, le uniche che sarebbero uscite dalla sua bocca, le avrebbero fatto riempire la faccia di sberle.
Bastardo schifoso, ecco quello avrebbe voluto gridargli. Ma stette zitta mordendosi a sangue la lingua.
Avrebbe voluto gettargli in faccia la pasta di pane, ma stette ferma mentre le dita affondavano dentro con rabbia. Mamma, chiamare mamma un’altra donna? Mai sia! Solo a pensarla un’altra donna in giro per casa  le rivoltava lo stomaco.
Luisella, mamma la devi chiamare! Scrofa piuttosto, altro che mamma.
Un’altra donna  a casa sua, ma non scherziamo, altre mani a toccare le cose della sua mamma, un’altra voce a riecheggiare nelle stanze, ma come si poteva pensare che fosse una cosa da sopportare  magari pure con il sorriso sulla bocca.
Non era una cosa  possibile che un’altra   se ne andasse a dormire nello stesso letto dove sua madre se n’era andata tra patimenti atroci stringendo il polso a lei e il  lenzuolo tra i denti perché nessuno capisse che in quel momento patteggiava con Dio o col diavolo affinché mettesse fine a quel dolore.
Mannaggia la vita, mannaggia, mannaggia la morte e mannaggia a suo padre  che  senza femmine non sapeva stare.
Alle dieci mi sposo. Che ore erano adesso?
Un raggio di luna cadeva giusto sulla sponda del letto. Arrivava proprio lì  come fosse una lama e se ne stava sospeso proprio sulla sua testa come se all’improvviso quando meno se lo aspettava, le poteva cascare addosso tra capo e collo.
E magari pensava, mi risparmierei quest’altro dolore!
Era una notte chiara e non ebbe bisogno di accendere il lume per guardare la sveglia che teneva sul…

IL LUOGO DELL’ANIMA

<< Guarda, siamo arrivate!>> esultò schermandosi gli occhi con la manina, mentre il sole feroce d’agosto alitava il suo fiato bollente.
Col viso impolverato, la zazzera incollata alla fronte si volse a cercare un cenno  d’assenso, una parola qualsiasi a conferma che a tremolare  all’orizzonte quell’immagine non fosse  un miraggio.
La nonna  manco rispose, schermandosi gli occhi, le concesse soltanto uno sguardo. Ma quello sguardo, quell’occhiata lì, ridente e beffarda, la diceva assai lunga, ci potevano essere mille parole là dentro, ma nessuna era la frase che avrebbe voluto ascoltare in quel preciso momento. Già, “Siamo arrivati” proprio non c’era, quanto piuttosto un “ Se, Seee!!!”
E ti pareva! Sarebbe stato troppo bello per essere vero. Era solo una fata morgana. La verità inconfutabile era un’altra discesa a scavezzacollo e una salita che solo a guardarla faceva venire il fiatone. Se solo quel sole avesse smesso d’urlare, se solo una piccola nuvoletta come una pecorella  smarrita … niente!  C’era soltanto lui e solo lui Re sole, padrone incontrastato dell’azzurrità abbagliante e, quando parlava lui, bisognava solo tacere  e…sudare.  E poi, lei, manco poteva lagnarsi, eh no, non sia mai, aveva quattro anni appena, gambette minuscole e un vocabolario di poche pagine che alla parola codarda non ci arrivava nemmeno. Per farsi portare con sé, aveva martoriato quella santa donna di sua nonna che snocciolava ora il rosario con parole che le parevano una lingua straniera, perciò per istinto sapeva di non poter recriminare. Però, ne avevano macinata di strada!
C’era ancora la luna quando si era svegliata e quando la nonna aveva bussato, l’aveva trovata già dietro la porta vestita di tutto punto, borraccia a tracollo compresa come se fosse andata a letto così. Ed era vero! Non si sa mai, le nonne a volte sono volubili come il vento, un ghiribizzo e addio, ti lasciano lì se devono aspettare i tuoi comodi.
Cominciava così, per lei, come un’avventura da esploratore, ciò che per la gente del suo paesello  è da sempre un vero un atto di fede, un rito antico che si perde nella notte dei tempi, quelli dopo Cristo, naturalmente, per quelli più remoti era un’altra faccenda.
Ogni anno verso la fine di Agosto si riaccompagna a un santuario sperduto tra nere dune di stoppie bruciate, una statua, una bella statua della  Madonna del Pozzo. Si riaccompagna a casa sua dopo che, per una decina di giorni ha  onorato il paese con la sua presenza. Certo, in paese la statua non ci arriva da sola, la vanno a pigliare. Il giorno di ferragosto, con un rito affascinante, all’imbrunire, la statua è portata in paese con una processione di fiaccole, mentre tutt’intorno, ma non troppo vicino al corteo, si vedono le stoppie bruciare, e lo spettacolo è uno di quelli che una volta veduto non si dimentica più. Il paese attende trepidante il suo arrivo tutto agghindato come la stella cometa. Le luminarie illuminano a giorno l’entrata del paese. Il  corso con uno spettacolare effetto galleria è sfolgorante di mille colori, come  le chiese, la piazza stessa  in cui  troneggia l’orchestra, un enorme gazebo dove la banda, finalmente potrà sedersi e dimostrare che il suo repertorio non è fatto solo di marcette. Tutti coloro che non sono, riusciti a farsi coraggio e sfidare le cazzottate del sole arrabbiato e i kilometri a piedi,  sono lì, all’imbocco del paese ad attendere.  Anche San Rocco portato in processione, con tutti i suoi ori sfavillanti e un po’ pacchiani  sul pettorale, l’attende, come a voler farle d’anfitrione e darle il benvenuto. E quando le due processioni finalmente  si fondono, s’attraversa tutto il paese tra canti e fiaccole e, dopo  un sermone sul senso dell’esistenza su questa valle di lacrime, quasi sempre una bella lavata di capo per chi sta in difetto, si dà il benvenuto alla Madonna coi fuochi pirotecnici. In questo rito qui, c’è sì la gioia d’avere per il resto del mese la madonna in paese, ma c’è altresì, la terrena allegria delle feste d’agosto che si profilano all’orizzonte, e quelle si attendono per un anno intero. Così come si attendono parenti e amici lontani che ad agosto sono tutti lì a scaricare valigie di nostalgia, quella di un anno intero passato altrove.
Ecco, quella povera piccola, non era riuscita a spuntarla, a ferragosto, per questioni diciamo pure di ordine  tecnico (buio, fiaccole e bla bla) era toccato perciò lo strazio di un rito che in paese è vissuto come un addio.- Addio Mamma celeste- Singhiozzava il predicatore e tutti, ma proprio tutti, persino quelli della…