Stefano Di Lorito

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Stefano Di Lorito

Stefano Di Lorito è nato a Genova il 31 Dicembre 1963, attualmente vive a Udine. Da più di 25 anni si occupa di illustrazione, grafica e pittura, attività che porta avanti parallelamente al suo impegno letterario, soprattutto nel campo della poesia e del racconto. Arti visive e letteratura si sviluppano nell’ambito dell’approccio che l’autore definisce come “Trans-metafisico”, a indicare la molteplicità delle relazioni tra soggetto e oggetto, tra realtà e surrealtà, in un gioco di specchi che moltiplicano i significati e a volte stravolgono il senso comune.

 

IL DIAVOLO IN OSTERIA

Belzerugo apparve all’ingresso del locale e aprì la porta a vetri con esibita spavalderia. Portava il cappello a tesa larga, floscio sulla fronte.

“Salute a tutti buona gente!” Esclamò togliendosi un attimo il cappello e rimettendoselo subito.

Era un povero diavolo decisamente male in arnese. Lo si sarebbe potuto prendere per un vagabondo. I pantaloni di fustagno marrone, il giaccone pesante di panno scuro di colore indefinito. Le scarpe grosse e consumate ma ancora solide.

Io me ne stavo seduto al mio solito tavolo osservando distrattamente gli avventori dell’osteria.

Quattro vecchie conoscenze giocavano a briscola bevendo vino e parlando poco.

Al tavolo più defilato in fondo al locale fumoso, il Gianni e la Carla stavano seduti sussurrandosi parole dolci all’orecchio, mano nella mano, guardandosi negli occhi, persi nel loro sogno d’amore.

Vicino a me, al tavolo grande, c’era un gruppo di viaggiatori che bevevano, mangiavano e schiamazzavano. Li sopportavamo soltanto perché offrivano un giro a tutti, a ogni nuova portata della lauta cena.

Nessuno diede segno di aver riconosciuto la natura del nuovo ospite anche se tutti sapevano bene chi fosse.

Con fare dimesso, il diavolaccio vagabondo, si sistemò a un tavolo vicino al grande camino di pietra. Aprì la giacca e si protese con le mani verso il fuoco che subito ebbe un sussulto di simpatia per il nuovo arrivato ed avvampò gioiosamente animato di nuova energia.

L’oste, Guccione, squadrò da capo a piedi il nuovo arrivato.

“Eehhh… stanotte qualcuno non dormirà bene, mi sa tanto”. Disse sospirando con rassegnazione.

“Oste! Bravo oste!” – esclamò il diavolo – “Una bottiglia di vino rosso forte e un piatto di affettati e formaggi per questo povero diavolo infreddolito! E pane! Il buon pane della terra!”

La figlia dell’oste se ne stava irrigidita e immobile dietro al banco osservando con occhi afflitti il vecchio demonio.

“Lisetta!” – la richiamò il padre mettendosi lo straccio sulla spalla e iniziando subito a tagliare il prosciutto – “Forza! E’ solo un povero diavolo. Non ti fa niente. Porta il vino all’ospite”.

La ragazza, adolescente di generose forme, si pulì le mani nel grembiule e afferrò una brocca.

Mentre tutti tornavano a pensare alle loro faccende, mi concentrai un pochino sul nuovo arrivato.

Ci scambiammo un’occhiata e un saluto cordiale.

Avevo già incontrato altri diavoli come questo.

Sapevo che non era pericoloso, bastava non dargli troppa confidenza, ma trattarlo con rispetto…

Quando si ha a che fare coi demoni, bisogna stare attenti comunque. Eh sì! Anche il più disgraziato dei demoni se lo lasci fare ti fotte.

“Belzerugo!” – Disse il demone, rivolto verso di me e alzando il boccale di vino.

“Alessandro!” – Risposi io di rimando, alzando il mio bicchiere di cognac.

“Qual vento ti porta in questo paese, Belzerugo?” – Gli domandai dopo aver sorseggiato il liquore.

“Le solite faccende, caro professore. Quando qualcuno chiama, noi arriviamo.”

Si strofinò energicamente le grosse mani callose e annerite e si ficcò in bocca un grosso pezzo di formaggio avvolto nel prosciutto.

“E ovviamente, me meschino, in questi posti fuori mano e freddi ci mandano i poveri diavoli come me.” Aggiunse parlando con la bocca piena.

“Certo che lei, quel suo problema  con l’alto papavero della capitale, potrebbe farselo risolvere da noi” – Continuò biascicando rumorosamente.

Non mi stupii che il diavolo sapesse le mie faccende, è loro prerogativa da sempre.

“Non mi sporco l’anima solo per avere un avanzamento di carriera, caro Belzerugo.” Gli risposi sorridendo.

“Giusto giusto!” – Convenne lui continuando ad ingozzarsi – “E se tutti ci invocassero per ogni problema, non basterebbero tutte le legioni dell’Inferno” – Aggiunse e prese a ridere sguaiatamente.

La risata del povero diavolo assunse una tonalità cavernosa, il viso, già rosso per il fuoco, il vino e la sua natura luciferina, si fece addirittura viola.

Per qualche istante rimasi a guardarlo, pensando che questi diavoli di campagna non sapevano proprio limitarsi. Mi resi conto, vedendolo rovesciarsi per terra con tutta la sedia, che invece stava soffocando. Uno dei suoi fenomenali bocconi gli era andato di traverso mentre rideva.

Mi precipitai su di lui, lo presi per le ascelle, lo tirai in piedi. Un leggero odore di zolfo mi penetrò le narici mentre, tenendolo con le braccia serrate sullo stomaco, cercavo di sbloccare la sua infernale trachea.

Per alcuni secondi tutti, nell’osteria, rimasero immobili a guardarci. Poi con un rumore di pentola scoperchiata, Belzerugo riuscì a sputare il groppo.

Lo rimisi a sedere e gli diedi ancora un paio di pacche sulle spalle. Il diavolaccio si appoggiò con i gomiti al tavolo coprendosi con le mani la faccia ancora paonazza.

“Offhhh!” – Grugnì mentre si asciugava le lacrime che copiose gli scendevano sul viso – “Grazie professore, grazie, grazie. Questa volta me la sono proprio cercata. Se non c’era lei mi toccava rientrare nell’aldilà senza aver finito la commissione”.

Parlava con sincero rammarico, si versò un boccale di vino e lo trangugiò d’un fiato.

“Ehhh… voi non sapete quanto si arrabbi il Capo, se torniamo senza aver fatto il nostro dovere. Non ve lo immaginate proprio quanto diventa violento. Una volta non riuscii a portare a termine il mio incarico, ero ancora giovane e inesperto e mi attardai con una pulzella. Al mattino mi ricordai che il cliente doveva essere accontentato prima del sorgere del sole e non potei fare altro che tornarmene a casa.” – Mentre raccontava questo aneddoto, gli occhi presero di nuovo a lacrimargli, ma questa volta di paura.

“Quando il Capo lo venne a sapere, ovviamente tutti facciamo la spia molto volentieri dalle nostre parti. Beh, insomma, ero giovane e anche piuttosto bello, sapete? Mi fece strappare le unghie e mi bruciò la pelle del viso”.

Si protese verso di me, tirandosi il cappello sulla nuca – “Guardi qua professore, ho ancora i segni dopo 400 anni!”

In effetti la pelle del suo viso era irregolare e gonfia, venata di striature più scure, ma si notavano solo a uno sguardo attento.

“Mi ha dato una lezione coi fiocchi. Da quel giorno non ho più mancato una commissione. Sempre in orario e sempre attento a soddisfare il cliente.”

Mentre raccontava le sue disavventure, annuivo con la testa e con gli occhi semichiusi cercavo di trasmettergli tutta la mia umana comprensione.

Belzerugo finì di cenare, mi offrì un ultimo bicchiere, per riconoscenza e se ne uscì fuori al freddo di Dicembre, per portare a termine il suo incarico.

DAMA LUIGINA E IL CAVALIER ASTOLFO

Narra la leggenda che Luigina, contessa di Borgonovo al Secchio, fu donna tanto bella quanto sfortunata. Ella fu maritata, ancor bambina, al conte Ulderico Arcosanto, figlio primogenito del vecchio Sigismondo, settimo conte di Casal del Soldo.

Si narra anche che Astolfo, cavaliere nobile ma povero, era di un coraggio pari solo alla sua prestanza e alla sua bellezza.

Essi furono attratti uno nelle braccia dell’altra da così potente passione, che neanche la certezza della fatale punizione poté impedire al loro amore di sbocciare e per questo cagionarne la fine ed elevarli alla gloria immortale dei poemi.

Tutte fandonie. La contessa Luigina era in verità donnetta bassa, dalle spalle cadenti, i fianchi sproporzionatamente grossi e voce stridula. Ella era di carattere arcigno e volubile, non mancando mai, in tutta la sua esistenza, di denigrare uomini e donne che non le fossero assoggettati e soprattutto utili.

Il cavalier Astolfo dal canto suo, era sì figlio cadetto di nobile famiglia lombarda, ma essendo povero in canna, abbracciò il mestiere delle armi con scopi ben lontani dalla sacra missione di proteggere gli uomini e le donne dalle ingiustizie.

Era infatti mosso più dalla mira del facile guadagno che non del raddrizzare le storture del mondo.

Un mattino di Maggio la contessa Luigina, moglie ormai da più di dieci anni di Ulderico, passeggiava nel loggiato che dalla rocca domina tutto il paese sottostante. Rimuginava ella, nelle ore oziose e conturbanti del tepore primaverile, su come spingere il conte suo marito a donarle il maniero di Favastretta, che voleva poi assegnare in dote a una sua protetta, la dolce Passerina dei Tebaldoni, sua cugina germana.

Passerina era vedova di un capitano delle guardie reali, che aveva lasciato la pelle sul campo di battaglia, durante la grande guerra. Essendo rimasta sola e senza dote, pregava da tempo la cugina Luigina di farle ottenere i mezzi per sostentarsi ed eventualmente trovare un sostituto del coraggioso e sfortunato marito.

La contessa, dal canto suo, mirava a gettare Passerina nelle braccia del vecchio marchese di Solignacco, feudatario confinante del Casal del Soldo.

Il matrimonio, essendo ormai il marchese più che sessantenne, sarebbe stato facilmente privo di discendenza. A tempo debito i due feudi sarebbero stati uniti sotto l’autorità del conte Ulderico, per poi passare al futuro figlio di Luigina.

Angustiata quindi Luigina per quel piano audace e astuto, si arrovellava su come trovare il modo di aver dono dal conte suo marito del suddetto maniero.

Vide una coppia di colombi tubare, il maschio rincorrendo la femmina, finché un altro maschio, intromettendosi fra i due, dapprima scacciava il rivale, ma alfine la femmina con gesto magnanimo cedeva alle profferte del primo spasimante, le venne così agio di praticare anch’ella il medesimo giuoco.

In quel momento, dalla porta dei porcari, entrava bel bello, tronfio e squattrinato come d’uso, il cavalier Astolfo, in fuga da Città del Salto, per via di una certa torbida faccenda di vendette e dadi truccati.

Luigina vide dal loggione l’aitante Astolfo scender da cavallo, spolverarsi la giubba ed il cappello, e avviarsi con passo allegro verso la taverna, non senza aver prima giuocato con le vesti della prostituta Galena, all’angolo di vicolo de’ bardi.

Egli parve alla risoluta contessa l’uomo giusto al momento giusto: Straniero, sufficientemente attraente da provocare la gelosia del marito, ma troppo male in arnese, a giudicare dal cavallo e dalle vesti per potersi illudere di essere più che uno strumento nelle sue mani.

Mandò un messo fidato dal palazzo alla taverna, ad informarsi sull’identità del cavaliere e quanto avesse potuto apprendere della di lui vita e condizione.

Tutto il pomeriggio ella stette in angoscia, attendendo il ritorno del servo. Finché al crepuscolo questo comparve alla porta del palazzo ed ella lo interrogò immediatamente. Seppe che il messo, oltre a domandar del cavaliere, con lui s’era assai accompagnato, in gioco ed in bevute, tanto che a mala pena stava in piedi e dalla bocca gli uscivan solo effluvi e borbottii.

Una buona dose di frustate ricondusse il servo sulla via della ragione e così poté narrare alla contessa quanto saputo del misterioso cavaliere.

Appreso ch’ebbe ella del lignaggio di Astolfo, antico e nobile seppure privo di rendite e castello, si convinse ancor più ch’era egli l’uomo della provvidenza, per giocare il ruolo del piccione impiccione.

Lo invitò quindi a palazzo, come è d’uso e cortesia fare, tra uomini e donne blasonati, per quella sera stessa.

Nel ricevere la missiva, Astolfo trovò insieme all’invito un focoso biglietto d’amore che Luigina aveva abilmente vergato, copiando passi sparsi dell’Alighieri e del poeta locale detto “il puttanaccio”.

Fiutando come segugio un possibile amoroso gioco e fors’anche occasione di guadagno, il cavaliere non si fece pregare, né tantomeno attendere e all’ora solita di cena, minuto più minuto meno, smontava da cavallo nel cortile del palazzo.

A tavola Luigina, di fronte al conte suo marito, si profuse in complimenti per Astolfo, il suo retaggio, il suo mestiere e il portamento. Di certo, domandò, egli ne aveva di eroiche imprese da narrare.

Affilato più di lingua che di spada, Astolfo si dilungò alquanto a narrare improbabili conquiste, atti d’armi, d’onore e carità cristiana. Tanto che il conte Ulderico, ometto sgraziato e gobbo, per via di lunghi incroci fra troppo stretti consanguinei, frustrato fin dall’infanzia per la debolezza delle membra e la fragilità del carattere, si sentì umiliato dalle portentose gesta dell’ospite.

Luigina non risparmiò le strizzatine d’occhio ad Astolfo e le frecciate al consorte, al punto che quest’ultimo, dopo cena, si ritirò nei suoi alloggi piegato da una colica.

Profittando del malessere di Ulderico, la contessa si intrattenne con il cavaliere ospite, più di quanto decenza e regola avrebbero imposto a una donna del suo rango. Tutto ella fece per ingelosire il marito, suonarono il cembalo e il liuto fino a tarda ora, cantando ballate d’amore e canzoni di focosi approcci.

Steso nel suo letto, Ulderico stringeva una mano sullo stomaco ed una sulla fronte, ascoltando il cicaleccio dei due colombi dabbasso, piangendo lacrime di dolore, al cuore come al ventre.

Ospite dei conti per la notte, Astolfo si sottrasse di buon grado alle profferte di Luigina, accusando la stanchezza per il viaggio, il troppo cibo, il vino generoso, una vecchia ferita di guerra, nonché un mal di testa opprimente che, come le spiegò, lo tormentava da mesi per via di un malocchio ricevuto nell’Oltrepò pavese.

La contessa, ch’era sì pronta a concedersi ad Astolfo, come a molti altri prima di lui, era però più interessata al suo piano segreto e quindi poco si dolse dei mancati amplessi, disponendosi a dormire nel suo letto, in compagnia di cane, gatto e una caraffa di sidro al miele.

La notte fu agitata soltanto dal russare del cavaliere e dal mugolare di Ulderico, preda come s’è detto, di colica di stomaco.

Al mattino Luigina accolse con ostentato garbo e dolcezza il marito, profugo di una notte tormentata e insonne. Astolfo consumò la sua lauta colazione e si dileguò con la pancia piena e una collana d’oro al collo, regalo della generosa contessa.

Vedendo il marito piegato sulla sedia, ingobbito più del solito e imbronciato come un cane a cui abbian sottratto l’osso, la furba Luigina dedicò al conte carezze e parole dolci, come non faceva da tempo, ripetendo abilmente il gioco che aveva visto fare alla colomba il giorno innanzi.

Roso di  gelosia e consumato dall’invidia, Ulderico fu preda facile dell’astuta contessa. Ciò che fa grande un nobile – ella gli disse – non è la prestanza, né il coraggio e tanto meno la bellezza, ché son tutte cose che qualunque stolto e poveraccio può vantare. La vera qualità del nobiluomo, argomentò, è la generosità che solo un potente può permettersi e solo un grande sa adoprare.

Mosso ad orgoglio dalle sapienti parole della moglie, l’imbelle conte pregò Luigina di chiederle qualcosa, qualunque cosa in regalo, lui le avrebbe dato dieci volte più di quanto chiesto per dimostrarle quanto fosse nobile.

Allo schermirsi di lei, che tutto già le aveva donato e di nulla era mancante, egli insisteva, quasi piangendo, che non le negasse il piacere e l’orgoglio d’essere più nobile degli altri, e domandasse qualcosa in dono, qualunque cosa.

Ella, sapientemente, finse di vagar con la mente qua e là, più volte dichiarando che nulla le mancava e nulla desiderava in più di ciò che già egli le aveva dato. Alle lacrime di Ulderico ella rimediò ricordando, come per caso, quel maniero sul fiume a sud, così ben esposto e così ricco di prati e boschi intorno,  che le era da sempre assai caro e, se proprio avesse lui voluto, quello le donasse.

Grande fu la gioia del conte nell’udir quelle parole, egli fu grato alla consorte magnanima, d’avergli permesso un grande gesto e immantinente fece chiamare il notaro per rogitare la cessione.

Questa storia ben poco potrebbe avere della canzon d’amore e dell’eroiche imprese o della tragedia romantica che tutti conosciamo. Se non fosse che la sera stessa il cavalier Astolfo, accortosi che la collana donatagli dalla contessa, non era d’oro zecchino, ma patacca di mediocre fattura, indispettitosi oltremodo, meditò poco i propri atti e si precipitò a palazzo col favore delle tenebre.

Arrampicandosi su per la cinta muraria, fin sopra al loggione, con un balzo fu davanti alla finestra di Luigina. Ella stava già dormendo della grossa, come una leonessa soddisfatta, avendo ottenuto quel giorno quanto aveva meditato per lungo tempo.

Astolfo si infilò di soppiatto nella camera. Nel buio incespicò nel cane, che dormiva ai piedi del letto, ricevendone un immediato morso e scatenando un baccano indiavolato. I servi accorsero e anche se mezzo addormentati, in breve scontro ebbero la meglio sul disarmato e maldestro cavaliere.

Quando Ulderico irruppe a sua volta nella camera della moglie, si trovò davanti all’incontestabile evidenza dei fedifraghi colti in flagranza di adulterio.

Altro non restò al povero conte, per quanto poco uso alle armi e alla violenza, che scannare i due presunti amanti.

Questo inatteso epilogo e inaspettato inganno è all’origine della triste storia di Luigina di Borgonovo e del cavalier Astolfo, che affiancano nelle narrazioni tragiche e romantiche, i Lancillotto e le Ginevra, i Paolo e Francesca, gli Otello e Desdemona, i Romeo e Giulietta.

E tanta e tale è la certezza di ciò che vi ho narrato, per avermelo tramandato persone di famiglia, fidate e oneste, che il dubbio mi sorprende, a volte, a domandarmi se anche le altre storie, non siano in realtà invenzione, abbellimento necessario di venture ben poco nobili e virtuose.