Amanda Buisan Ferrer
Gli amici dell'Inedito Letterario > I NOSTRI NARRATORI > Amanda Buisan Ferrer
Sono nata in una città che ora è diventata un’ambita meta turistica, ma che tale non era mentre lì trascorrevo la mia spensierata giovinezza: Barcellona, la città dalle mille facce che ti dà e poi ti toglie e che mai ti fa sentire sola, ma ti fa sentire parte di qualcosa più grande di te...
Sono nata in una città che ora è diventata un’ambita meta turistica, ma che tale non era mentre lì trascorrevo la mia spensierata giovinezza: Barcellona, la città dalle mille facce che ti dà e poi ti toglie e che mai ti fa sentire sola, ma ti fa sentire parte di qualcosa più grande di te. In quel tempo ero molto fortunata perché nel mio orizzonte avevo sempre con me un’isola, l’isola d’Ibiza (Eivissa), alla quale è ispirato il racconto che segue ed alla quale sono legata per le mie origini familiari di parte materna. Quando vi tornavo d’estate, mi si apriva un mondo. La tanto chiacchierata parola “cultura” assumeva allora aspetti inusitati. Non più composta di fatti di fredda razionalità controllati dalla mente, ma bensì, da emozioni istintive che scaturivano in me dai caldi raggi del sole sulla pelle, dalla luce accecante riverberata dai muri imbiancati a calce e dall’incommensurabile blu del mare. Una cultura piena di oscuri misteri, tramandata oralmente di generazione in generazione, le cui origini si perdono nel tunnel del tempo. Penso di aver bevuto da queste due fonti, indistintamente. Di aver tratto ispirazione dai “genii loci” che abitano gli anfratti del tempo, nascosti tra i rami più contorti del mio albero genealogico piantato tra il Mediterraneo e le alte cime dei Pirenei, e che hanno usato la mia amata città come un grande pentolone dove tutto si mescola e diventa unico. Poi a trent’anni sono stata trapiantata in Italia, dove l’albero ha germogliato di nuovo. E in questo quarto di secolo che sono qui a cavallo fra i dintorni di Roma e l’Umbria, lui (l’albero) e io stessa, abbiamo continuato a crescere e a imparare. Così ho appreso che la parola “cultura” non fa riferimento a qualcosa di omogeneo e uniforme che viene impartito univocamente dall’alto. È’ ciò che mi hanno insegnato i miei figli, nati e cresciuti qui, ma anch’essi con un’isola nel proprio orizzonte. Socia dell’Inedito gruppo letterario dal 2009. In questi sette anni ho scritto una breve raccolta di poesia narrativa in italiano intitolata “Luna di giorno” (2012), un racconto lungo che sto traducendo in italiano “Il saggio e la montagna magica” (2013) e cinque romanzi, tutti nella mia lingua materna, il catalano, ancora inediti. “La voce silenziosa” (2014), “Rosa senza primavera” (2015), “Il lungo viaggio dei guerrieri” (2016) dal quale è stato tratto il racconto che segue, “Il lago” (2018) e “La scelta” attualmente in fase di elaborazione.
IL VIAGGIO
Slittiamo sul mare a grande velocità.
Non vedo l’enorme massa d’acqua nera che sostiene la chiglia ma la sento. È quasi come quando di notte, io e i miei amici, andavamo veloci sui pattini sulla piazzetta dello zocco, al buio, perché di giorno faceva troppo caldo e allora vedevo come il cemento spruzzava scintille luminose sotto le rotelle.
Qui, sotto i fari degli uomini che ci hanno fatto imbarcare, vedo brillare schiume bianche.
Ad Aleppo avevo dei pattini a quattro ruote e anche una bicicletta.
Ora la barca sale e scende, ci sbatte da un lato all’altro ma Amina e io non ci muoviamo affatto perché la mamma ci fatto stivare a poppa, fra i depositi della benzina e i lati di gomma.
È riuscita a farci mettere in questo posto che ha ritenuto più sicuro di tutti, dopo una litigata furiosa con uno degli uomini che urlando ci dicevano dove ci dovevamo mettere.
Così lei è seduta accanto a noi, sopra il bordo rigonfio della barca, stretta fra un’altra donna e un vecchio, schiacciata dalla mischia di gente che fa peso per far sì che la barca rimanga stabile sul filo d’acqua.
Io le ho afferrato la mano e non gliela lascio andare, gliela premo più forte ogni volta che saltiamo con forza verso l’alto e verso i lati.
Mia sorella Amina è raggomitolata contro la mia spalla e non dice nulla. Si aggrappa al mio braccio sinistro ammutolita.
Penso ad Aleppo, là avevamo di tutto, perfino un gatto, e la nostra casa era la migliore del mondo, là ci stavamo bene finché la guerra è cominciata e un giorno ci è caduta sopra una bomba che l’ha fatta diventare una montagna di ruderi.
Quella maledetta bomba ha ucciso mio padre, l’ha fatto schiacciare sotto il peso di una trave, mentre tutti noi tentavamo di scappare.
Dopo questo, nessuno dei vicini che sono venuti ad aiutarci ha potuto convincere la mamma a farci restare, lei diceva loro gridando che mai e poi mai avrebbe permesso a qualcuno di farci diventare i suoi miserabili servi, né che a nove anni mi mettessero una granada in mano e tanto meno che facessero del male ad Amina.
Per questo la notte del giorno dopo siamo fuggiti in autobus verso il porto di al-Ladhiniyah, con in spalla le poche cose che ci erano rimaste, volevamo prendere una nave, una qualsiasi, una che ci portasse lontano dai morti che vedevamo buttati dappertutto in mezzo alle strade, ma soprattutto lontano dai fucili e dai coltelli dei soldati che entravano nelle nostre case per amazzarci o portarci via.
Abbiamo avuto fortuna e in quel porto siamo riusciti a salire su una barca di legno molto più grande di questo barcone di gomma, ma molto meno piena, e grazie al buon tempo siamo arrivati molto presto nelle coste turche.
La notte è molto buia, senza luna. Spero che gli uomini che guidano questa barca sappiano sul serio dove stiamo andando.
A me sembravano sicuri fino a qualche ora fa, mentre ci pareva di volare scivolando su un inchiostro nero come il petrolio. Ora invece la tavola del mare si è ondulata forte e le schiume macchiano tutto. Ora comincio veramente ad avere paura di cadere in mare. Non so nuotare e Amina neanche.
Ogni tanto mi alzo, ma solo per qualche secondo per fare stare tranquilla la mamma, così le faccio vedere che io non ho paura, le dico che la terrò sempre forte per mano per non farla cadere in acqua.
Mi guarda sorridente e mi accarezza la testa. Allora riguardo in basso e quando vedo le schiume fluorescenti non ho più paura e mi rimetto tranquillo e seduto al lato di Amina.
Sono passate quattro ore da quando siamo partiti e io guardo più spesso l’orologio di mio padre…
L’ONNIPOTENTE RAGIONE
… Questo è un messaggio vocale rinvenuto in un supporto digitale nella capanna di uno sciamano di una tribù indigena di un pianeta dove la vita si è estinta da millenni:
… Nel secolo XXIII dell’era precedente la terra era dominata da due grandi potenze che si contendevano a metà il mondo degli umani: i bianchi e i neri. Queste due razze, molto potenti, avevano colonizzato la superficie terrestre che era rimasta sprovvista di vegetazione e di qualunque altra forma di vita sia animale che microbica. Il dominio dei sotterranei del pianeta, composti da labirintiche gallerie simili a miniere e da città seppellite sotto le acque degli oceani, era conteso da strane creature selvagge, dall’aspetto umanoide, in guerra continua fra loro. Questo stato di cose andava avanti da 300 anni circa, da quando, cioè, a metà del secolo XXII, una guerra di dimensioni planetarie aveva distrutto tutta la terra e annichilito almeno tre quarti dei suoi abitanti. Subito dopo era iniziata la ricolonizzazione seguendo i dettati precisi dell’onnipotente dea Ragione per tentare di eliminare per sempre ogni possibilità di altre guerre.
Così il Nuovo Ordine era stato instaurato lentamente, usando, ben dosate, sia le armi del terrore che quelle della seduzione, fino a che si erano arrivati a plasmare individui, ogni volta più somiglianti alla loro Dea-Machina. Ma a metà del secolo XXII, alcuni abitanti delle zone cavernose della terra e del regno delle acque profonde erano riusciti ad emergere sporadicamente e, di rientro nei loro habitat naturali, avevano riferito ai loro congeneri ciò che avevano visto in superficie, seminando il disordine e instillando, in quelle menti primitive, una grande ansietà, cosa che aveva determinato più caos e più carneficine, più feroci di quelle che erano soliti infliggersi fra di loro.
Allora nei circoli illuminati dell’alta società bicolore si ebbe la brillante idea d’inviare al sub-mondo una replica della dea della Ragione, totalmente automatizzata e identica all’originale, però personalizzata a misura di quegl’esseri che conservavano i tratti del passato umano ancora molto marcati. Per far riuscire l’inganno, l’automa fu disegnato appositamente per attrarre e sedurre la popolazione dei bastardi, come erano definiti gli abitanti del sottosuolo; fu dotato di forme vagamente maternali: faceva movimenti lenti ed emetteva luci di colore caldo che simulavano accoglienza, calore e disponibilità al sacrificio. In fin dei conti si cercava di inculcare un minimo di razionalità in quelle menti bloccate ad un livello molto basso dell’evoluzione, in modo di riuscire a cancellare dai loro cervelli qualsiasi idea di riscatto o di possibile salvezza o redenzione, affinché avessero fatto rientro nelle fabbriche dei substrati, dove avveniva tutto il processo produttivo che sosteneva la brillante economia della società bicolore della superficie
Dopo qualche anno, nonostante tutti questi sforzi, la situazione nel sub-mondo era di nuovo peggiorata. Senza alcuna spiegazione razionale la replica della dea Ragione inviata nelle oscure profondità, aveva fatto ritorno da sola nella società bicolore, si era fortemente umanizzata e la popolazione dei bastardi era ancora più in rivolta di prima. Si celebrò allora un congresso di esperti di automi in cui si ventilò il sospetto che fra gli abitanti delle profondità terrestri vi potessero essere stati soggetti infiltrati della società avanzata, che avevano insegnato ai bastardi alcuni rudimenti di informatica, mediante i quali erano riusciti a…
STORIA DI TI-N-HINAN
“Che il mio racconto sia bello e si srotoli come un lungo filo”
Molti anni fa, in un regno lontano di Kabilia abitavano un re e i suoi sudditi. Vivevano in pace e prosperità grazie alle giuste leggi che riuscivano a mettere d’accordo fra loro gli interessi dei diversi clan. Le decisioni prese dalla “jem’a”, l’assemblea formata dagli anziani e da altri vari rappresentanti eletti, erano rispettate da tutti gli uomini e donne e tutti erano considerati uguali e con gli stessi diritti. Era da molto tempo ormai che le guerre fra quel regno e gli altri vicini erano cessate, le piogge erano state abbondanti e non c’erano né fame né carestia. Per di più ogni casato era benedetto con grande ricchezza di figli maschi, i primogeniti dei quali trasmettevano il grosso del loro patrimonio familiare in maniera esclusivamente patrilineare, mentre i restanti beni in comune erano distribuiti ugualmente fra il resto dei fratelli, in modo che nessuno avesse né troppo né poco.
Malgrado questo, a causa di un maleficio inaspettato, compiuto dalla temuta orchessa Teryel che abitava reclusa nel suo meraviglioso giardino situato ai confini del bosco, i figli maschi del re incominciarono ad ammalarsi di una misteriosa malattia. Dopo un po’ tutti morirono, ad eccezione di uno, il più piccolo, sul quale nessuno avrebbe scommesso, perché era debole fisicamente e quasi non parlava. Ciò nonostante, cresceva molto di altezza e sembrava non dare retta a nessuno, nemmeno a sua madre; aveva un viso inespressivo e viveva chiuso in sé stesso. Ben presto tutta la gente si accorse che malgrado parlasse poco, il principe aveva la grande abilità di comandare tutti e così riusciva senza sforzi ad imporre la sua volontà. Allo stesso modo, riusciva facilmente ad ottenere molti schiavi ben disposti a servirlo e il padre, la madre, le sorelle e tutti i parenti e cortigiani lo accontentavano in tutto.
Arrivò il giorno in cui dovete scegliere in matrimonio una principessa che potesse dare a lui e al casato reale una buona discendenza di maschi, dalla quale un giorno potesse emergere un altro principe che, come lui, fosse in grado di far zittire i temibili venti di guerra, e se ciò non fosse possibile, fosse almeno abbastanza forte da dominare i nemici del regno. Il principe non ebbe dubbi a scegliere la nobile principessa Ti-n-Hinan, dai capelli neri come la pece e brillanti come il cristallo di roccia e dalla pelle bianca, come la neve. Ma qualche giorno prima delle nozze venne a sapere che Ti-n-Hinan aveva un cugino della sua stessa età, cui lei era stata promessa fin dalla nascita. Allora il principe, senza scrupoli, lo fece uccidere, gettandolo dall’alto di un burrone.
Mancavano pochi giorni alle nozze e ogni notte il vento di scirocco, insieme alla polvere, trasportava una triste melodia che ripeteva: “ai, principe delle ombre, tu mi hai fatto uccidere, ma la mia regina non si sposerà mai con te!” La gente del villaggio sparlava. Dicevano che il ventre della principessa Ti-n-Hinan era ingrossato e che invece di sposarsi con lei, quello che il principe avrebbe dovuto fare, era farla uccidere, così come dettato dalle rigide leggi della “jem-a”, dove…
LA REGINA DI COPPE
“Che il mio racconto sia bello e si srotoli come un lungo filo”
Molto tempo fa, prima che niente esistesse, ci fu una grande esplosione dalla quale nacque una Dea, il Principio della Creazione. Subito si trovò persa in mezzo ad un grande spazio vuoto da colmare e cominciò a riempirlo creando la Materia che avrebbe dato origine a tutto l’Universo. Parte dei corpi che scaturirono da questa Materia furono le Stelle di Fuoco, che donavano energia libera sotto forma di luce e calore. Altre creazioni sue furono i Corpi Celesti, composti principalmente di Acqua e che avevano come primo compito quello di albergare una Natura generatrice di esseri viventi. In quella stessa esplosione ebbe origine anche una gran concentrazione di Materia Scura, che si distribuì in maniera invisibile ed omogenea per tutto lo spazio rimanente, che prima era vuoto, disseminandosi a perdifiato per quell’universo appena generato. Questo regno di ombre era governato da un onnipotente Principe: il Potere della Mente.
Questo Principe delle Ombre, usando la sua dote principale, cioè, il dono della parola, che lui chiamò Verbo, si affrettò a dare un nome a tutti gli elementi che componevano la Materia che occupava l’Universo, senza curarsi se questi fossero piccoli o grandi, vivi o inanimati. Li nominò tutti. Nello stesso modo battezzò la Dea che condivideva con lui il Grande Universo appena nato e le diede il nome di Regina di Coppe, perché tutti i componenti di quell’Universo, compreso lui stesso si alimentavano dei fluidi che essa emanava. D’altro canto, lui si autonominò Re di Denari, per la grande abilità che aveva di attrarre tutta l’energia in torno a sé e concentrarla nel suo interno, brillante come l’oro, riuscendo a mantenere il suo involucro esterno ricoperto di ombre.
Ben presto si accorse che la sua sete di energia era tanta, tanto grande e tanto insaziabile, quanto tutto l’Universo e così capì che solo se fosse riuscito a fondersi con la Regina di Coppe, sarebbe riuscito ad appagarla. Allora cominciò a spasimare per lei, giorno e notte. La desiderava con lo stesso ardore con cui Giove, una divinità pagana inventata da insignificanti creature chiamate uomini, desiderava Afrodite. Per riuscire a possederla, pensò di fare come Giove, si travestì come aveva fatto lui, ma non con…
IL GECO BIANCO E LA ROSA ROSSA
La vidi per la prima volta che il sole ancora non aveva fatto capolino sopra i pini. Io ero nascosto dietro al portoncino di legno che racchiude il pozzo della cisterna. La vidi comparire dal nulla per la fenditura di luce che ogni mattino alla stessa ora ferisce i miei occhi infiltrandosi nel ridotto spazio verticale che rimane libero fra lo stesso portoncino e il muro.
Era là, a circa tre metri dal mio nascondiglio, dritta, vanitosa e sfidante. Spuntava fra tutti gli arbusti di ginepro e rosmarino che pareva fossero là soltanto per mettere in risalto la sua fragile bellezza.
Un bocciolo chiuso di colore rosso, in capo ad uno stelo spinato con solo un paio di foglie per proteggersi il collo dal vento di levante che la piegava insistentemente.
Era così sola… come un papavero di bosco. Le sue sorelle di sangue rimanevano lontane, circa cinque metri più in là legate con fildiferro sulla parete imbiancata di calce che racchiude la tenuta con un muro basso. Sono rimasto sbalordito. Come era mai successo? Quale mistero divino aveva deciso che quella piccola meraviglia prendesse forma così vicina a me?
Allora per primo ho sentito l’impulso incontenibile di spuntare fuori dal mio nascondiglio per contemplarla meglio. Per fortuna mi sono saputo contenere in tempo. Alle dieci del mattino, il sole d’inizio primavera incominciava a riscaldare con forza e mi avrebbe strappato il mio vestito appena nuovo di pelle di squame ben saldate tra loro.
Sono geco e per di più albino. Non ho mai conosciuto nessun altro geco come me. E non lo dico per vantarmi, ma disgraziatamente è un fatto che mi pesa. So che se io non fossi come sono, ma come gli altri gechi, potrei sopportare meglio i raggi del sole e potrei resistere più tempo sotto la luce del giorno. Purtroppo so bene che non posso fare come loro. Ogni giorno, quando il mattino inizia a rischiarare e l’alba prende il pennello per dare colore a tutte le pietre e a tutti gli esseri viventi, io mi devo sbrigare a scappare verso il mio nascondiglio, perché in caso contrario, il fuoco mi brucerebbe e la pelle mi si aprirebbe in piaghe purulente che dopo farei molta fatica a richiudere.
L’ho già sperimentato una volta, quando ero giovane e non vorrei mai più per nulla al mondo, dover subire la stessa tortura.
Ora capirete che il giorno che la vidi per la prima volta fu lo stesso in cui diedi il benvenuto a tutte le mie disgrazie. Sono arrivato al punto che non mangio né dormo più, né di giorno né di notte. Niente mi attira più, e nulla m’invoglia. Non esco quasi mai perché la mia pelle è molto rovinata. Qualche giorno fa, ho tentato di dare la caccia a una farfalla dai colori sgargianti.
La notte prima avevo catturato una libellula gigante, perché era da un po’ di tempo ormai che le falene notturne non mi sapevano più di nulla. Troppo facili e insipide. La libellula mi si era avvicinata troppo, fiduciosa delle sue grandi dimensioni, ma io mi ero piazzato vicino al lampione che i padroni di casa lasciano acceso per tutta la notte e la poveretta si sarà confusa, non mi avrà visto troppo bene ma con un rapido salto le ho morso l’ala mentre lei si dibatteva con forza tra la vita e la morte…