Annalinda De Toffol

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Mi chiamo Annalinda, e le parole mi avvolgono quando mi fermo a riflettere su ciò che ero e ciò che ora sono. Un mix di felicità, vissuto, esperienza, il tutto condito di positività. Leggimi, sono un’anima intensa che brilla anche nelle notti più buie. Ricordo il respiro / mentre cadevano stelle / sui nostri corpi assopiti / dopo una notte d’amore

Annalinda De Toffol

Mi chiamo Annalinda e ho ereditato questi due nomi dalle nonne Florinda e Annetta. Se mi avessero fatto scegliere, Florinda mi avrebbe rappresentato molto meglio. Ho pure il cognome De Toffol, quel De mi conferisce un'aria nobile anche se non lo è. Ho vissuto i miei primi undici anni, nella cornice delle Dolomiti. Anni ricchi di cose semplici. Le corse sui prati, i campi di patate e quelli dal colore rosso dei papaveri; l'odore umido e dolciastro delle stalle, come il sapore del latte appena munto. Quelle scuole di maestre rigide e poco sorridenti, insieme alla neve abbondante e al gelo che disegnava i vetri, mentre sognavo la città. Era l’ottobre del sessantacinque; l'autunno aveva fatto la sua apparizione colorando il bosco, e mamma aveva preparato le valige. Il  Lussemburgo ci stava aspettando. Mio padre aveva trovato lavoro ad Esch-sur-Alzette. Fu l'inizio di un periodo altrettanto bello, in un paese che non parlava la mia lingua, dove io italiana, venivo guardata con occhi forse troppo razzisti ma ho imparato in fretta a parlare francese e a farmi rispettare. Ho ricordi straordinari di quei quindici anni; perfettamente integrata e spigliata con quel mio accento parigino. Pensavo che mai avrei lasciato quel posto, invece l'amore fa fare cose grandi altrettanto, e nell’ottanta, rientrai in Italia. Lasciai una città che amavo, un lavoro, la mia famiglia, tutti i miei amici. Non mi sono mai sentita un'emigrante. Ho percepito sempre l'importanza e la fortuna di aver vissuto gli anni della mia adolescenza in una famiglia serena, in un clima privo di tensioni, in un posto dove a parte il cielo, tutto filava liscio. Ora abito qui nei Colli Euganei che fanno da cornice, con il mare quasi dietro l'angolo e con una vita che ha regalato e tolto, all'ombra di ieri, immersa nell'oggi.

IL PIU’ BEL PENSIERO

Nevicherà questa notte e forse tutto domani. Disse Attilio guardando il cielo. Le nuvole erano bianche ovattate e dense. La sera stava calando e il suo mantello sul bosco addormentato aveva perso i colori caldi autunnali. Le foglie di aceri e betulle giacevano a terra scomposte e mescolate tra loro facendo da tappeto alla terra brulla.

Il fumo della pipa saliva verso l’alto disegnando cerchi perfetti, su fino a svanire. Stretto nella giacca di montone che sapeva di tabacco, appoggiato allo stipite della porta, si rese conto che mancavano solo venti giorni a Natale e che l’inverno sarebbe stato lungo. Doveva curare quella fastidiosa tosse.

Entriamo. Disse a Brinsi, il suo vecchio bracco tedesco. Brinsi uscì da sotto la panca e con lentezza seguì Attilio in casa.

Era una casa di pietra e sassi ereditata da suo padre, costruita dal nonno a un miglio dal primo gruppo di case accanto ad un torrente in prossimità del bosco. Un melo, un ciliegio e un nocciolo si facevano compagnia in quel pezzetto di terra silenziosa.

Attilio osservò la sua immagine nello specchio posto sopra il lavabo. I capelli radi, incolti e bianchi incorniciavano un volto segnato dal tempo. Folte sopracciglia si appoggiavano sulle palpebre cadenti che in parte nascondevano gli occhi azzurri cerchiati da profonde occhiaie. Riposava poco e la stanchezza appariva anche nelle pieghe della bocca. Da tempo mancava il sorriso, quello dei giorni felici.

Lunga e ispida era la barba che lui accarezzava di frequente, quasi un tic. La camicia in flanella a quadri rossa e verde con tutti i bottoni chiusi, era infilata in un paio di pantaloni di fustagno verde militare sorretti da larghe bretelle. Ai piedi vecchie e consumate pantofole. La figura era snella non appesantita dagli anni. Ma si erano appesantiti i pensieri man mano che gli anni passavano e si portavano via le persone a lui care; quei visi sorridenti nelle foto ricordo in quella stanza dal pavimento in legno, dal soffitto bianco e dalle pareti tappezzate avorio.

Una stufa a legna ed un tavolo, una vecchia credenza, un divano a fiori e una poltrona rossa, come il fuoco del camino sempre acceso. E per farsi compagnia, lui preferiva la lettura a qualunque altra parola. A volte i ricordi e la compagnia del suo cane col quale stava percorrendo quell’ultimo tratto di strada. Nel profumo dei libri letti e riletti, trovava il senso della vita. Scopriva e amava quella parte di mondo che non aveva mai visto ne toccato. Il suo grande sogno era stata l’America. Sul comodino con le pagine ingiallite Mississipi gli aveva fatto scoprire il grande fiume e aveva imparato a memoria un pensiero: Lui leviga il mondo, stacca le cose solide e le trascina via. Per lui i nostri giorni non sono altro che polline di pioppo. Alla gente importa essere in gamba, avere talento. Al lui basta la sua continuità.

Alla finestra osservò nuovamente il cielo. Era minaccioso ed il vento aveva fatto la sua apparizione sibilando tra i rami nudi degli alberi. Muoveva a ritmo di danza le fronde dei pini; il bosco si stava animando paurosamente, mentre gli abeti assumevano strane forme. Gli parve di scorgere un cervo in fuga verso sud. Ma fu solo un attimo e la figura scomparve. Se è “Cervus” che si stava allontanando. Disse rivolto a Brinsi. Vuol dire che sta arrivando una tormenta di neve.

Brinsi alzò il muso drizzando le orecchie guaendo in segno di approvazione e riprese a dormire. Attilio chiuse porte finestre e spifferi come meglio poteva. Aggiunse altra legna nel camino. Si accorse che metà cesta era vuota e che non poteva raggiungere la catasta di legna posta esternamente sul retro casa. Aveva iniziato a nevicare. Erano le diciannove del cinque dicembre dell’anno novantanove e da lì a un mese avrebbe compiuto 90 anni.

Brinsi forse aveva qualche anno più di lui, lo aveva trovato ferito e abbandonato nelle campagne Toscane nel periodo di caccia, sette anni prima. Attilio amante del buon olio, ogni anno, raggiungeva il Podere San Giovanni,  soggiornando nelle colline Toscane in compagnia  del suo amico Fernando. Fernando era alla guida della vecchia Citroen quella volta, e percorrevano una strada provinciale in collina sopra Siena.

Inchioda! Urlò Attilio. Ho visto qualcosa!

Cazzo mi fai sbandare! Risponde Fernando. Hai visto un fantasma?

No dai, ho visto una sagoma tra gli arbusti. Frena dai! Frena!

L’auto accostò rasente al fosso e i due amici subito scesero correndo verso il punto dove Attilio aveva intravisto qualcosa. Trovarono infatti, sul limitare del bosco, il corpo di un cane sdraiato con una evidente ferita sul fianco. Aveva perso molto sangue e respirava a fatica. Subito lo presero in braccio, arrivarono alla macchina e non esitarono ad avvolgerlo in una coperta.

Sbrighiamoci. Disse Attilio posandolo sul retro della macchina all’interno dell’abitacolo. Forse lo salviamo.

Chiusero il portellone e dopo essere saliti anche loro sull’auto, con un testa coda lasciarono il segno delle gomme sull’asfalto e tornarono in fretta verso Siena. Brinsi aveva il nome inciso sulla targhetta spezzata a metà e non fu poi possibile trovare il proprietario. Trovarono invece un buon veterinario alla clinica del cane a Siena. Il Dottor Rimproveri  rassicurò i due amici: Si salverà. E’ un bellissimo Bracco Tedesco adulto di circa sei anni. Disse. Accarezzando il pelo raso marrone maculato bianco. Tuttavia Attilio era perplesso. Dottore, chiese, io non vado a caccia lei pensa che si adatterà a stare con me?

Il cane guarirà perfettamente e le sarà eternamente riconoscente per averlo salvato, sarà un ottimo compagno e un buon cane da guardia.

Fu un ritorno a casa allegro. Brinsi dormiva. Fernando cantava, stonato come una campana e Attilio, per la prima volta dopo tanti anni, non si sarebbe sentito più solo. Iniziava cosi la loro avventura nei boschi del Trentino, dove Attilio viveva. Brinsi lo seguiva ovunque stando al passo, ogni tanto scattava per istinto inseguendo una marmotta, poi tornava scodinzolando felice. Sempre attento ai rumori del bosco, temeva i temporali e amava incondizionatamente Attilio.

Quella sera Brinsi aveva un sonno agitato; dopo aver svuotato la ciotola con la solita ingordigia si era messo a dormire. Russava come un cammello. Attilio terminò la zuppa di fagioli. Si versò un altro bicchiere di Merlot, poi soddisfatto, passò la mano sullo stomaco pensando: Già inizia a brontolare la mia pancia e ripeté una frase che gli ricordava il suo vecchio padre: Tromba di culo, sanità di corpo e qui sorrise accarezzandosi la barba. Prese la pipa, la riempi con il tabacco preferito e la accese. Aspirò una gran boccata di fumo che fece il giro della bocca uscendo dall’angolo destro del labbro grazie ad un ridicolo gesto del viso, mentre silenziosamente quello iniziava a salire verso il soffitto.

Si tolse le pantofole, sedette in poltrona, si coprì le ginocchia con il plaid scozzese, allungò le gambe verso il camino e chiuse gli occhi. Cercò di non pensare a nulla ma come sempre, in quel momento di pace i ricordi e le immagini avrebbero puntualmente ricominciato ad affollargli la mente. Si passò una mano sulla fronte, forse sognando un carezza o per allontanare un ombra. Prese sonno e mentre la neve diventava bufera avvolgendo la valle, incontrò Dorotea sua moglie, la donna che aveva amato più della sua vita.

Il sole splendeva alto nel cielo dello stesso sogno mille volte sognato. Un cielo azzurro privo di nuvole avvolgeva i prati tutt’intorno a vestire fiori e fili d’erba. Farfalle di tutti i colori volavano leggere di fiore in fiore. L’aria profumava il caldo estivo e Attilio nei suoi trent’anni scendeva lungo il torrente che lo aveva visto crescere e diventare uomo. Tutto era come può essere in un sogno stupendo, la limpidezza dell’acqua, i bagni estivi con i compagni di scuola, le risate e il pudore di quando gli abiti aspettavano sull’erba e loro nudi fingevano di saper nuotare.

Gli venne in mente Angelo Polso quella volta che rischiò di annegare nel torrente rabbioso. Angelo sfidava la sorte nelle imprese più pazze. Erano quattro inseparabili amici, Attilio, Angelo, Anselmo e Mario. Il cielo aveva scaricato acqua per una intera settimana ed il torrente non era mai stato cosi irruento. Eccitati i ragazzi osservavano l’acqua densa e pericolosa. Quando Angelo disse: Ora mi spoglio, datemi una corda che mi lego e scendo in acqua. Mario sgranò gli occhi terrorizzato: Tu sei pazzo. La corrente ti porterà via. E fece un passo indietro.

Attilio e Anselmo si guardarono divertiti e accettarono la sfida. E fu così che in mutande e la corda legata alla vita, Angelo si calò nel torrente in piena e senza nemmeno rendersene conto si trovò sballottato immediatamente dall’impeto dell’acqua e trascinato via. La corda  scivolò lentamente dalle mani dei ragazzi lacerandogli la pelle e Angelo scomparve alla loro vista. Corsero disperati lungo il torrente sino al ponte in legno. Angelo stava aggrappato ad un ramo impigliato nelle assi del ponte e tremava, piangeva e rideva contemporaneamente.

Che fine aveva fatto Angelo lo sapevano tutti. Se ne era andato all’altro mondo in una delle sue pazze imprese nel bello dei suoi anni. Era uno scavezzacollo e lo era sempre stato. Povero Angelo. Il torrente questa volta scorreva in acque tranquille e piccole anse dove stare sdraiati a sognare. Raggiunse un punto dove si allargava, proprio dove un salice piangente accarezzava dolcemente l’acqua. Vi si avvicinò rispecchiandosi e vide un uomo forte e bello. Arrotolò le maniche della camicia bianca, si tolse scarpe e calzini e con i pantaloni al ginocchio entrò nel torrente.

Apparve una nuvola che si mise davanti al sole cambiando il riflesso della luce mentre i piedi cercavano un appoggio. Aveva dimenticato quanto fosse fredda quell’acqua e sentì un brivido attraversargli il corpo. Il vento spostò la nuvola, tutto tornò a brillare e in quel momento vide Dorotea. Era in piedi sul bordo dell’altra sponda e sorrideva. I capelli nero corvino erano trattenuti da un nastro bianco e cadevano in morbidi riccioli sulla spalla nuda. Indossava un vestito fatto di veli trasparenti di colore verde smeraldo. I piedi erano nudi. Era cosi bella che Attilio rimase senza respiro.

Amore mio. Le disse con un filo di voce temendo che lei potesse scomparire.

Amore. Rispose lei. Lui tese le mani e Dorotea gli venne incontro scivolando leggera mentre si rifugiava nelle sue braccia.

Non seguirono parole ma solo baci e carezze. Dorotea mise le sue esili braccia attorno al collo di Attilio e il sogno cambiò. Il buio scese come un mantello avvolgendoli. Strani rumori spezzarono il silenzio tra battiti d’ali e rami spezzati. Attilio sentiva il corpo di Dorotea scivolargli fuori e scomparire. Apparve la luna e le stelle incorniciarono il cielo.

Strani enormi pipistrelli stridendo sopra il torrente si nascosero sotto al salice. Attilio si svegliò tremando, si strofinò gli occhi e si guardò intorno. Le foto di Dorotea erano appese alla parete e lo stavano osservando. Brinsi ronfava e il fuoco si stava spegnendo. La lampadina che pendeva dal soffitto fece uno strano rumore e si spense. Attilio usci dal sogno per immergersi in un incubo. Fuori il vento soffiava e ululava sempre più forte. Un tonfo sordo questa volta ben distinto, accompagnato da un rumore sordo, svegliò Brinsi che iniziò ad abbaiare.

Erano al buio. Attilio si alzò dalla poltrona e a tentoni trovò candele e fiammiferi nel cassetto della credenza. Subito ne accese una e la stanza ritrovò calore e ombre. Tranquillizzò Brinsi, poi mentre dagli spifferi entravano i primi fiocchi di neve si lasciò ricadere sulla poltrona. Sentì un nodo alla gola con un dolore ai muscoli del collo e senza accorgersene cominciò  a singhiozzare prima piano poi sempre più forte. Pianse e pianse ancora. Per tutte quelle volte che non lo aveva fatto. Pianse per la morte di suo padre. Per la madre. Per quel  figlio mai nato. Abbracciato ai ricordi pianse il suo grande amore, la sua ragione di vita.

Improvvisamente gli sembrò tutto così ingiusto, per la prima volta si accorse che la solitudine aveva un volto, ed era il suo. Era il volto che incontrava nello specchio tutte le mattine, era la voce della solitudine che parlava  di ricordi e di attimi di vita volata. La barba lunga e bianca erano i suoi anni. E quella tosse la sua maledizione. Il sogno agitò per un attimo la sua mente. E’ solo un sogno. Si disse. Ma non poteva non essere turbato. Quella notte volle Brinsi sul letto accanto a lui. Gli sembrava un sacrilegio ma Brinsi non si fece pregare, felice si mise di traverso in fondo al letto.

Attilio cercò a lungo la posizione per prendere sonno ma non ne fu capace. Tornarono se pur offuscate le immagini del primo incontro con Dorotea. Bellissima nei suoi 18 anni, stava seduta sul bordo della fontana nella piazza di Medil. Era una ragazza del sud trasferita al nord con la sua famiglia. Neri gli occhi come i capelli e la pelle ambrata. Le immagini di Dorotea seguivano il filo degli anni come un fotogramma, tra la furia del vento e i ricordi. Le lacrime apparvero nuovamente quando ripensò alla moglie dolorante nel letto che stava per abbracciare la morte consumata dalla malattia.

Scomparvero le immagini e il vento cambiò direzione. Con il camino spento e la candela consumata si assopì. La neve che non smetteva di cadere a grandi fiocchi aveva trasformato il bosco e coperto di una coltre bianca e pesante casa giardino e torrente. I rami carichi di neve iniziarono a spezzarsi e la casa scomparire. Arrivò l’alba che sorprese Attilio addormentato con Brinsi tra le braccia. La stanza era stranamente silenziosa, il vento aveva smesso di fischiare e nevicava.

Ancora nevica. Disse tra se, sentendo il silenzio ovattato che fa la neve quando scende. Solo una volta nel corso di tanti anni aveva nevicato per quattro giorni e quattro notti ed era dovuto salire da una botola sul tetto per trovare un uscita. Attilio scivolò giù dal letto ma improvvisamente cadde sbattendo la testa contro il comodino. Un rivolo di sangue usciva dalla ferita sulla tempia raggiungendo la barba bianca per poi finire sul pigiama.

Porco Giuda. Imprecò Attilio barcollando. Si rimise in piedi, gli girava la testa e non si sentiva niente bene. Cercò una sedia e si sedette. Il fazzoletto bianco premuto contro la ferita stava cambiando colore quando  gli  venne un colpo di tosse, poi un secondo seguito da un terzo e il catarro mosso dallo sforzo gli riempì la bocca. Ingoiò quello schifo che sapeva di sangue. Con la fronte madida di sudore, allungò il braccio, prese il bastone che lo aveva accompagnato negli ultimi mesi dandogli sicurezza quando al cambio di stagione si risvegliava l’artrite. Le gambe erano molli e si muovevano a fatica. Tornò in posizione eretta e trascinando il piede destro si avvicinò alla porta.

La neve aveva imbiancato parte del pavimento. La porta non si apriva, era sbarrata dalla neve,  cercò di aprire i balconi di una finestra.  Pure le finestre erano bloccate. Era prigioniero nella sua casa. Fuori la tormenta di neve non diminuiva. Mancava la luce e le braci erano coperte dalla neve caduta attraverso il camino. Restava una candela.

Attilio avvertì un senso di angoscia profonda. Era troppo vecchio per salire in soffitta e cercare una via di fuga. Troppo solo per lottare. Brinsi lo guardava con occhi tristi e pensierosi, come se percepisse quel particolare e tragico momento. Erano solo due vecchi amici in balia della sorte. Due compagni  sperduti.

L’orologio a pendolo si mise a fare il suo verso. L’identico di tutte le mattine alle sette in punto, ma in quel momento risultava spettrale. Era l’ora del caffè e spinto da un desiderio di normalità per quella bevanda densa e scura, mise un pentolino d’acqua sul fornello a gas. Brinsi lo seguiva come un’ombra aspettando la solita fetta di pan biscotto. Attilio con mano tremante prese il barattolo del caffè d’orzo solubile ma lì per lì non riuscì a togliere il coperchio e il barattolo cadde a terra e rotolò sotto la credenza mentre l’acqua bolliva.

La stanza girava davanti agli occhi e la fiammella del gas sembrava irraggiungibile. Respirava a fatica. Ricomparve la tosse violenta. Ballava il petto, mentre un senso di nausea lo costrinse a cercare inutilmente un bicchiere d’acqua. Le mani tremavano, il corpo avvertiva i primi sintomi della febbre. E passò un tempo che non seppe definire. Attilio cadde rantolando sulla poltrona e perse i sensi. Brinsi tirava inutilmente i pantaloni del pigiama e guaiva disperato.

La mano di Attilio si pose sulla sua testa poi il corpo cadde in avanti e rimase piegato in due sul pavimento freddo. Fu scosso da un lungo tremito. Sorrise ad occhi chiusi e vide Dorotea li vicino con le braccia aperte. Sospeso tra la vita e la morte sentiva la presenza del suo inseparabile amico. Ed è in quel momento che Attilio ebbe  Il più bel pensiero Brinsi,  vieni via con noi. Un brivido percorse Brinsi che alzò la zampa per raggiungerlo. Poi si sdraiò accanto a lui posando il muso sul suo petto e attese nel silenzio del giorno, felice di seguirlo in un nuovo viaggio.

Rimasero così, persi nel tempo quasi abbracciati serenamente. Senza dolore i loro cuori smisero di battere mentre la neve continuava a cadere. Erano le dieci del sette dicembre dell’anno novantanove.

 

 

LA RAGAZZA DEI SOGNI

Stranezza, (così chiamai quella cosa senza volto che una notte fece irruzione nella mia vita). Ancora oggi a distanza di tanti anni la ricordo nei minimi dettagli.

Negli anni sessanta abitavo in una città industriale attorniata da fabbriche, nel Lussemburgo. Avevo quattordici anni, tanti grilli in testa e molti sogni nel cassetto. Io, le mie due sorelle e con mamma e papà abitavamo in una casa singola nel centro città. La casa per me era bella, allineata con le altre dalla facciata grigia. La nostra un tempo “giallo ocra” era annerita dal fumo delle ciminiere.  La pioggia che a volte cadeva per settimane non lavava via nulla, anzi acqua e fumo si mescolavano e la città conservava il suo grigiore che a me piaceva molto. Ed è in quel paese che ho imparato ad amare le nuvole e la pioggia che ai miei occhi appariva sempre diversa a seconda della sua intensità e del vento.

Per un po’ di tempo abbiamo occupato il primo piano in attesa che il piano terra venisse restaurato. Le scale in legno lucidissimo, offrivano un corrimano sul quale scivolavo per scendere. Dividevo la camera da letto con le mie due sorelline, Susanna e Lucrezia. Si entrava dalla cucina, dove tre letti, due comodini e un armadio occupavano gran parte dello spazio. La finestra dalle tende bianche e leggere era grande e si affacciava sul fronte casa. Non abbassavo mai completamente le persiane, amavo quella luce soffusa che filtrava e disegnava strane ombre sulle pareti. Era la luce dell’insegna del bar della casa accanto, che restava accesa tutta la notte. Non che avessi paura dal buio o forse sì, lo temevo, preferivo un filo di luce. Per vedere il buio bastava chiudere gli occhi, così scompariva anche l’armadio che stava alla destra del letto. L’armadio non mi piaceva, ovvero aveva un aspetto sinistro, forse dovuto alla sua massiccia imponenza. Era antico, con due ante a specchio e avevo l’impressione che mi osservasse. Io mi specchiavo spesso, cercando nella mia immagine anche un piccolo cambiamento. Macché, ero piatta come una tavola da surf e il seno non accennava a crescere, mentre già sognavo il primo bacio!

E quell’armadio che per me aveva occhi che mi fissavano mi piaceva sempre meno. Un giorno che mamma era assente, sicura che ci avrei trovato qualcosa di strano, lo svuotai completamente facendo prima giurare alle mie sorelline che non avrebbero spifferato nulla. Cercai in tutti gli angoli, guardai nei cassetti, non c’era niente tranne l’odore dei nostri vestiti che ignari stavano catastati sul pavimento uno sopra l’altro. Quando vidi apparire mamma, la stanza era sottosopra e in un attimo capii che alle mamme non si poteva nascondere nulla.

“Beh cosa sta succedendo?” chiese mentre cercavo una scusa plausibile. Di certo non potevo confessargli che sospettavo ci fossero i resti di uno scheletro. Mi ordinò di rimettere tutto in ordine.

Quella stessa notte feci un sogno molto strano: nella stanza c’eravamo solo io e l’armadio, il vento muoveva le tende passando attraverso i vetri e sibilava facendomi tremare. La porta si era chiusa con tonfo secco e la chiave aveva fatto due giri nel chiavistello. Ero prigioniera nella mia stanza.

Dall’armadio uscivano strane voci; sembravano voci di bambini e parlavano una lingua sconosciuta. Parlavano e piangevano, mentre la stanza cominciava a girare ed io con lei. L’armadio rideva e sbatteva le porte, mentre io mi rannicchiavo in un angolo e con le mani mi tappavo le orecchie. L’armadio venne verso di me, scattai in piedi e mi appoggiai alla parete rivestita di stoffa a fiorellini rossi che profumavano d’incenso. Più volte urlai” mamma” ma lei non poteva sentirmi, non era in casa. L’armadio si fermò avanti ai miei piedi, gli specchi apparivano enormi e la mia figura sformata. Poi improvvisamente, i due specchi caddero in frantumi, al loro posto c’erano due enormi buchi neri. Il mio cuore batteva forte e ancor prima che mi rendessi conto, gli specchi si ricomposero e l’armadio tornò al suo posto.

Mi svegliai sobbalzando, la stanza in penombra era perfetta. Susanna e Lucrezia dormivano tranquille, mi girai verso la finestra, verso quel filo di luce e ripresi a dormire. In fondo era stato un sogno. Lo avrei tenuto solo per me per non sembrare pazza.  Al mattino seguente evitai di guardare l’armadio anche se per un attimo di sfuggita vidi la mia immagine nello specchio.

L’immagine di una ragazzina tutta pepe che indossava un impermeabile rosso, regalatogli dalla signora dove mamma andava a stirare. Sotto una pioggia fitta e fredda con ancora in mente il sogno raggiunsi la scuola.

La cena era il momento del raduno familiare e aveva regole ferree.

“Mamma, possiamo prendere un gatto?” chiesi a bruciapelo leccando il fondo del piatto.

Mio padre, con lo sguardo severo rimase con la forchetta a mezz’aria e disse “No, non voglio gatti, pensa alla scuola e metti da parte le stupidaggini.

“Papi, nemmeno un criceto da tenere in gabbia?”

“Nemmeno quello” fu la risposta.

“Beh, allora posso avere uno smalto rosa?” Altra occhiata glaciale e il silenzio come risposta, mentre le due grazie ridevano piano entusiaste del risultato ottenuto. Mamma mi sorrise, mentre entravo nella mia camera un po’delusa. Rannicchiata sul letto iniziai a fantasticare sul posto dove abitavo.

La casa non era né nuova né proprio vecchia; di sicuro aveva una storia di persone e fatti, la carta da parati era a tratti sbiadita come se i fiori fossero stati cancellati. Bella sui toni del rosa con fiorellini gialli. Ed ho immaginato una mano capace di sbiadire ogni cosa, che usciva dall’armadio nelle notti di luna piena. La mia piccola coscienza mi disse “La sera abbassa un po’ di più le persiane e non farai più incubi” Sorrisi all’armadio che aveva un’anta socchiusa e non mi preoccupai del perché. Il giorno dopo avevo un compito di matematica, e per un po’ misi da parte spettri e scheletri.

Aveva smesso di piovere, l’aria si era addolcita è maggio stava per finire. L’armadio iniziava a piacermi, sarà stato perché lo specchio mi regalava un accenno di cambiamento, di cui andavo fiera. Ero così concentrata su di me, che non feci caso al lampadario che oscillava. Me lo fece notare Lucrezia mentre si vestiva, ed io scoppiai a ridere!

“Sorellina, in questa casa ci sono i fantasmi, c’è odore di morto e di scheletro nascosto.” L’armadio fece uno strano rumore, un’anta si socchiuse e noi scappammo in cucina a fare colazione. Passarono altri due giorni senza stranezze, arrivò il sabato e quando raggiunsi il letto, le mie sorelle già dormivano.

Ubbidii alla mia coscienza e abbassai ulteriormente la persiana. Sul muro apparvero linee di luce sottilissime che scomparvero quando chiusi gli occhi. Mi addormentai quasi subito, sognando le labbra di quel ragazzo che avevo incontrato in treno e mi aveva sorriso maliziosamente. Aveva una fila di denti bianchissimi e labbra ben disegnate. Forse aveva qualche anno più di me, un accenno di barba e capelli nerissimi, sicuramente un ragazzo del sud trapiantato lì con la famiglia.

Uno stano rumore mi tolse dal sogno, aprii gli occhi e anche se la luce non era molta, vidi la porta della camera che si apriva e poi sempre silenziosamente si richiudeva. Cercavo di scorgere un’immagine che non c’era, ascoltavo per attingere a un qualsiasi rumore, ma nulla. Eppure la porta si era aperta e poi richiusa, non era la mamma e nemmeno il papà che aveva un sonno pesante e spesso lo sentivo russare. Rimasi immobile per un lungo tempo, sentivo il regolare respiro delle mie sorelline, mentre il mio aveva lunghe apnee, avvertivo una presenza, qualcosa che si avvicinava al letto, mentre una insolita sensazione di freddo copriva il mio corpo, ebbi la certezza che non stavo sognando. Mi sentivo schiacciare e avevo molto freddo, la sensazione di freddo raggiunse la gola, sembrava mi volesse soffocare poi, sentii il freddo sollevarsi e liberare il mio corpo.  lo sentii allontanare e ebbi la sensazione che uscisse dalla finestra.

Poi più nulla. La mia mente riprese a lavorare, “Si” mi dissi, qui ci sono i fantasmi ed è come sospettavo. In questa stanza è morto qualcuno e la sua anima abita ancora in questa casa e vuole mettersi in contatto con me. E se fosse l’anima di una ragazzina della mia età? Oh Dio e se invece si trattasse di un vecchio violentatore di donne, che nessuno ha voluto in paradiso e nemmeno all’inferno? E se invece avessi veramente soltanto sognato? Con questo pensiero, nell’incoscienza della mia età mi riaddormentai.

Non raccontai l’accaduto a nessuno, perché nessuno mi avrebbe creduta e poi poteva essere stato veramente solo un sogno.

Dimenticai l’accaduto pensando a quel ragazzo, del quale ero riuscita a scoprire il nome.

“Si chiama Michele” mi disse Marta, mentre andavamo come tutte le domeniche pomeriggio dalle suore. ­ “Viene da Foggia e ha sedici anni.”

“Magnifico” dissi abbracciandola. “Ho il numero di telefono di casa sua” disse mettendomi tra le mani un bigliettino dove accanto al numero c’era scritto: Hai gli occhi più belli del mondo.

Le mie guance diventarono incandescenti, mentre il cuore accelerava e il bigliettino finiva nelle mie tasche. Non potevo di certo telefonare da casa, dovetti inventarmi una bugia con i fiocchi. La sua voce era bella quanto le sue labbra e dimenticai completamente gli eventi della notte precedente. Io e l’armadio diventammo amici, ci guardavamo con occhi curiosi, lui silenzioso, ed io che cantavo canzoni di Gianni Morandi che ascoltavo alla radio. “Basta” gridava mio padre quando esageravo. Ma io non lo ascoltavo.

La settimana passò tranquilla tra: la scuola, le amiche, la mia bellissima famiglia, il sole che illuminava la città dai tetti di ardesia, i marciapiedi cupi come l’asfalto delle strade, e le notti senza fantasmi, ricche di sogni. Fu nuovamente sabato e siccome la domenica si dormiva un po’ di più, rimasi alzata a guardare un film con papà. Un Western con Giuliano Gemma “Un dollaro bucato” mio padre amava i film d’azione. Non se ne è fatto scappare nemmeno uno.

Mi addormentai, pensando a Michele che non avevo ancora incontrato.

Non so che ore fossero ma il cigolio della porta mi fece aprire gli occhi e mettermi in ascolto. Come la settimana precedente non vidi nulla, tranne la porta che si apriva e poi si richiudeva. Un movimento veloce, un leggero cigolio e poi silenzio. Avevo lasciato la persiana leggermente alzata e sui muri le ombre mi facevano impressione. Rimasi in attesa con il lenzuolo che mi copriva anche il viso e iniziai a sentire il freddo all’altezza dei piedi, poi salire fino a coprimi completamente. Non riuscivo a muovermi, ero come paralizzata. Temevo quello che stava accadendo e allo stesso tempo non potevo sottrarmi. La sensazione di freddo penetrò fino nelle ossa e tremavo, non riuscivo a parlare, respiravo a fatica ed ero terrorizzata. Quel momento mi sembrò lunghissimo. Poi stranezza si scostò dal mio corpo, avvertii un leggero fruscio, forse solo immaginazione e come la volta precedente uscì dalla finestra. Accesi la lampada sul comodino, la sveglia segnava le quattro in punto. Sui muri le ombre non erano cambiate, la porta era chiusa come pure la finestra, le mie sorelline dormivano tranquille ed io mormorai tra le lacrime “Chi sei?”

Fu una notte agitata in un dormiveglia di incertezze e paura. Decisi che ne avrei parlato con i miei genitori durante il pranzo della domenica.

Come sempre il cibo che mamma aveva preparato era buonissimo. Alla domenica non doveva mancare il pollo arrosto, era quasi un rituale che durò in tutti gli anni successivi. Non esisteva la domenica senza il pollo, un po’ come la Santa Messa, era d’obbligo.

La torta con fragole e panna era la chiusura del pranzo domenicale.

“Mamma, papà, vi devo parlare, è una cosa seria, posso farlo senza di loro?” dissi indicando Lucrezia e Susanna, visto che loro non si erano accorte di nulla, non volevo spaventarle. Dovetti aspettare che Susanna finisse la sua fetta di torta ed insieme a Lucrezia, andarono a guardare la televisione.

“Beh disse papà, sputa il rospo.”

La mamma mi guardava preoccupata e aggiunse “Allora, cosa sta succedendo?”

“Mamma non so cosa sia, ma è successo già due volte. Durante la notte qualcuno entra in camera e io non voglio più dormire lì dentro, perché ho paura.” Raccontai loro l’accaduto e come supponevo mi dissero la stessa cosa:

“Hai fatto solo un brutto sogno”

“Posso almeno chiudere a chiave la porta della stanza?” chiesi con le lacrime agli occhi, “così magari non entra e va altrove …”

“Certo che puoi, se questo ti tranquillizza” disse mamma abbracciandomi.

Papà scuoteva la testa e mi fissava con i suoi occhi celesti. “Vai a letto prima la sera e vedrai che dormirai fino al mattino”.

Lui aveva le soluzioni facili, “Vai a letto prima” era la frase che rimbalzava nella mente. In realtà io a letto in quella stanza non ci volevo proprio più tornare.

Aspettai che le mie sorelline si fossero addormentate, poi accesi la luce della lampada da notte, chiusi la porta a chiave, piazzai una sedia sotto la maniglia in modo da bloccare ulteriormente la porta.

Non riuscivo a dormire. La stanza cadde nel buio quasi totale. L’insegna luminosa del bar si era spenta e un primo tuono ruppe il silenzio. Il temporale sembrava lontano, poi un secondo tuono preceduto da un lampo illuminò per un attimo la stanza, annunciando che il temporale era arrivato. Grandinava e il vento soffiava forte sulle persiane, ed io ero ancora sveglia. Un secondo lampo e in quel frangente di luce vidi la porta che si apriva, mentre la sedia scivolava piano indietro senza far rumore.

Stranezza era entrata per la terza volta nella stanza e non stavo sognando. Aspettavo che si avvicinasse, non avevo fiato per gridare, sotto il lenzuolo nascosi anche l’ultimo capello e cercai di non pensare a nulla; il freddo mi avvolse completamente, battevo i denti mentre quella strana entità sembrava cercasse il mio respiro e per un attimo pensai che lei volesse rubarmi la vita, i miei giorni, le mie cose. Piansi disperatamente mentre pioggia, grandine, tuoni e vento coprivano i miei singhiozzi. Il tempo sembrava non passasse mai, poi stranezza liberò il mio corpo passando dalla finestra.

La sveglia segnava le quattro, la porta era chiusa a chiave, la sedia piazzata sotto la maniglia. Il temporale brontolando stava cambiando direzione, a tratti l’insegna del bar si accendeva. Lucrezia e Susanna dormivano ignare del mio incubo.

Rimasi sveglia tutta la notte, dovevo trovare una soluzione, mamma non mi credeva, nessuno mi avrebbe mai creduto. Così decisi che avrei perlustrato tutta la casa. Di sicuro Stranezza si nascondeva da qualche parte.

Avevo una settimana di tempo, anche se due incontri erano stai ravvicinati, avevo la sensazione che non si sarebbe fatta sentire prima di sabato.

Fu così che iniziai a cercare nella cantina, ma quel luogo era povero di oggetti. E poi non mi sembrava l’habitat di uno spirito. In effetti la ricerca risultò inutile.  Eravamo già a metà giugno e dovevo studiare per gli esami, ma dovevo cercare Stranezza, per affrontarla.

La settimana passò veloce, avevo ancora un giorno a disposizione e mi finsi ammalata.

“Mamma ho la febbre e mi gira la testa, posso rimanere a casa da scuola?” gridai dal letto della camera. Mamma arrivò di corsa e si sedette accanto a me.

“Ma sarai qui da sola, lo sai che al venerdì sono impegnata, Lucrezia ha il dopo scuola e Susanna è alla materna “Rispose passandomi la mano sulla fronte

“Lo so mamma, se resto a letto forse mi passerà”

“In effetti hai una brutta cera, non muoverti da qui”

“Grazie mamma, non mi muovo stanne certa.”

“Finalmente la casa è nelle mie mani. Salgo a quattro le due rampe di scale ed ecco la zona che ho sempre evitato. Una prima camera da letto contiene solo un baule e diverse valige.  Apro, ma dentro sono vuote, servono solo per i viaggi.

 Mi accosto alla finestra, mi siedo sul davanzale interno e guardo i tetti delle case. “Sono belli” penso, mentre un colombo si appoggia alla grondaia della casa di fronte. Un rumore che non identifico sembra venire dal sottotetto. Passo nella seconda stanza, anche questa è vuota.  Chiudo con un giro di chiave, e guardo la terza porta. Il corridoio è buio e mette soggezione. Mi faccio coraggio, so che la stanza porta al sottotetto e sento nuovamente un rumore. Respiro a fondo, mi appoggio alla maniglia, ma la porta è chiusa a chiave e la chiave non c’è. Torno nella stanza di fronte e vedo una chiave appesa al muro, è lei mi dico mentre infilo la chiave che gira nella serratura.

 Apro la porta, mentre le mie gambe tremano, non so cosa troverò, ma sono certa che qualcosa ci sia, ed ecco ripetersi il rumore come uno spostamento. Questa stanza ha dei fili per stendere il bucato, sono ricoperti di polvere bianca, la luce entra da una finestra in alto coperta di ragnatele, “Il posto adatto per i fantasmi” penso guardando la scala in legno che porta sotto il tetto. Salgo malgrado la paura, il tetto è basso, un lucernario pieno di schizzi è semi aperto. Ecco perché piove in soffitta, papà non deve essere mai salito, un nido di uccelli ancora in buone condizioni con due uova è nascosto sotto una tegola di ardesia.

 Sono lì sdraiata nella polvere in mezzo alle ragnatele quando sento qualcosa che mi sfiora la coscia. Resto immobile con il cuore che pulsa, attendo la sensazione di freddo, immagino un fantasma, trattengo il fiato. Invece avverto calore ma non oso muovermi, poi allungo la mano e incontro qualcosa di morbido, mi giro e sgrano gli occhi: un gatto dal pelo nerissimo e gli occhi gialli si sta strofinando sulla mia gamba. Lo prendo tra le braccia e   mentre lui fa le fusa io inizio a piangere, un pianto liberatorio lunghissimo e silenzioso.

Ora posso affrontare Stranezza, sono certa di farcela, al problema come far accettare il gatto ci penserò più tardi. Ho un nuovo piano. “

Ore 23 dell’ultimo sabato di giugno.

Mamma e papà sono stati al cinema e sono da poco rientrati, le bambine dormono. Silenziosamente salgo a recuperare il gatto, lo avvolgo in una coperta e lo porto in camera con me. Lascio la porta socchiusa, le pareti hanno le solite ombre, sorrido allo specchio, le sorelle dormono e la casa è silenziosa. Io e il gatto ce ne stiamo accoccolati sotto le coperte e poi mi addormento. Una strana sensazione mi fa svegliare, la porta si muove come spinta dal vento e poi si apre completamente, mentre con il gatto tra le braccia mi siedo sul letto e accendo la luce. Un vento freddo mi passa accanto, mi sembra di vedere Stranezza avvolta in veli e non è sola, dietro di lei piccole luci vibrano nel silenzio mentre il vento si fa sempre più debole e poi scompare. Io e il gatto nero restiamo immobili e attoniti davanti a un insolito corteo; II gatto nero ha occhi gialli fosforescenti che si riflettono nello specchio, distolgo lo sguardo per non rimanere abbagliata, mi asciugo una lacrima accarezzando il dorso del gatto che al tatto mi sembra gelido. Sono le quattro del mattino e tutto sembra normale, guardo un momento verso la finestra dove la luce filtra leggera. Sui muri della stanza non ci sono ombre, sorrido e mi riaddormento.

Qualcuno bussa alla porta e sento la voce di mamma,” dai figliole, sono le nove e la colazione è pronta” Mi presento con il gatto sulle spalle, mio padre che ha la tazzina del caffè in mano, caccia un urlo. “Eh no, ti avevo detto niente bestie in questa casa”

Mamma ribatte:” Stai calmo, è solo un gatto, si può sapere da dove arriva?”

“Era nel sottotetto, sono salita in soffitta perché sentivo dei rumori”

“quando Andrea?” chiese mamma avvicinandosi,

“Venerdì mattina, dopo che tu eri andata via”

Susanna e Lucrezia stavano in silenzio, sapevano che papà non mi avrebbe mai permesso di tenere il gatto. In effetti disse: “Hai due giorni per farlo sparire, per oggi puoi tenerlo ma domani sera non voglio trovare qui.” Feci un cenno con la testa e posai il gatto sulle ginocchia di Susanna.

Il giorno seguente decisi di nascondere il gatto in soffitta prima di andare a scuola, poi avrei trovato il modo di convincere papà a tenerlo. Il gatto corse su per la scala in legno, mentre pensavo: non ha mai miagolato ed è ancora senza nome.

“Kuro dissi”  Kuro si girò a guardarmi e poi scomparve nel buio della soffitta.” Torno presto” gridai chiudendo a chiave la porta.

Ottobre si presentò con nuvole e pioggia, come sempre mamma aveva preparato la colazione e mi sedetti accanto a lei.

“Sai mamma, ho visto un bellissimo impermeabile rosso, se non costa troppo, lo possiamo comperare?

“Si Andrea, sei una brava ragazza, parlerò con tuo padre.

“Grazie mamma”, poi devo chiederti un’altra cosa:

“Mamma, mi sento strana, sono successe tante cose, non so come spiegarti, mi sento confusa e non ricordo”

“Cosa non ricordi Andrea?”

“Non ricordo i fatti, tu ricordi il gatto nero mamma, lo ricordi?”

“Andrea non abbiamo mai avuto un gatto nero”

“Mai mamma? Ne sei sicura?”

“Ne sono certa.”