Monica Benedetti

Gli amici dell'Inedito Letterario > I NOSTRI NARRATORI > Monica Benedetti

Monica Benedetti

Nata in un piccolo paese dell'Alta Valle del Metauro, ho cominciato ad interessarmi fin da bambina ai percorsi storici dell'uomo e alla scienza in genere, continuando a pormi e porre domande sulle reali origini di questa umanità. Le mie scelte di vita mi hanno condotta a volte, lontano dai percorsi che più mi appassionano ma mai cosi tanto da non ritrovarne le briciole che mi hanno riaccompagnata, sempre, a seguire la via della Verità. Ho eseguito ricerche sulla civiltà predinastica egizia in collaborazione con altri ricercatori, prima e in solitaria, fino ad oggi. Ora, emigrata in terra sarda, sto seguendo le tracce delle popolazioni primeve dell'isola e le funzioni della stessa nella storia prediluviana. Ho scritto alcuni saggi di ricerca riguardanti i monumenti della Piana di Giza ma amo scrivere in generale, dal romanzo di narrativa, alla poesia. Collaboro col portale Eterodossia.com e Rubrica News e sono iscritta all'Associazione Letteraria L'Inedito.

STORIA BREVE DI UN PASTORE, BREVE DI ZUCCA

Gli avessero chiesto perché aveva scelto di fare quel mestiere non avrebbe saputo rispondere. Seduto su una grossa pietra macchiata di licheni, il giovane pastore osservava quel gregge composto e incurante della sua presenza.

Era quel manipolo di lana ammucchiata, cotonata dai rovi e dai propri escrementi che gli aveva tolto la possibilità di uscire a divertirsi come gli altri suoi coetanei, che lo costringeva a rodersi di odio senza una visione benché offuscata del futuro.

S’animale leggiu! Ripeteva come un mantra nella sua mente avvizzita come un vecchio volto.

Erano brutte le pecore. Brutte e sporche. L’unico animale che si caca addosso ed erano stupide le pecore, stupide e insensibili.

Potevi frustarle o prenderle per il collo che non sentivi un belato o il minimo impeto di protesta.

Che animale inutile! Codardo e vile.

Non di certo come lui che vantava imprese altisonanti quasi come quelle dei banditi di una volta, di cui il nonno gli aveva cantato le lodi fino a quando il fiato glielo aveva permesso e anche nell’ultimo respiro gli aveva strappato la promessa di non essere vile, in nessun giorno della sua esistenza.

Il nonno le amava quelle brutte bestie ingorde e il bastone che portava con se, gli serviva da appoggio nei sentieri spesso impervi e nascosti dai verdi rigogli primaverili.

Gli aveva insegnato tutto quello che sapeva per fare di lui un buon pastore ma mai una volta che gli avesse domandato se era quello il futuro che voleva.

Lui sognava il continente, le strade nere e bollenti, le stelle accese nelle finestre e nelle insegne e di vivere in mezzo a un gregge che parlava la sua lingua, ma questo al nonno non l’aveva mai confessato per non dargli dolore anche lui, come la buon’anima di suo padre che se n’era andato all’altro mondo lasciando a suo nonno tutto l’onere di doverlo crescere e farlo diventare un uomo.

E nemmeno sua madre, léggia e stupida, come quelle pecore, si era mai permessa di opporre resistenza al volere dell’anziano così, ad ogni richiesta del ragazzo di voler vedere il continente, si limitava ad abbassare lo sguardo o volgerlo altrove lasciando che gli occhi si bagnassero per qualche istante e tornando poi, con un lungo respiro, alle sue faccende.

Certo che gli era piaciuto, quando se ne doveva rimanere a scuola, darsela a gambe e raggiungere il nonno nell’ovile e a nulla erano valse le note negative o le proteste degli insegnanti poiché, fiero come un leone, ci aveva sputato sul diploma di licenza media e mai lo avrebbero costretto ad aprire un inutile ammasso di pagine puzzolenti per farsi riempire la testa di stronzate!

Il mondo, quello vero, era custodito nei segreti onori del passato e la cultura era roba per froci e femmine.

Il suo braccio era potente, il suo sguardo impavido e nessuno poteva osare un sorriso di traverso o una parola di troppo o finiva a terra e gli andava bene se poteva raccontarlo.

Il nonno, solo il nonno poteva riempirlo di schiaffi e male parole quando rincasava sul far del mattino, dopo aver compiuto qualcuna delle sue imprese eroiche: una ruberia o una scazzottata sempre finita con l’arrivo dell’ambulanza o una notte al gabbio.

Ne aveva prese tante di mazzate dal vecchio e mai una volta si era ribellato, così da mostrare la sua forza a quel vecchio accartocciato sulla speranza di vedere, un giorno, un uomo fiorire negli occhi del nipote.

Così gli ripeteva mentre gli spezzava il bastone sulla schiena ma in quella zucca vuota e scondita ogni tentativo di trovare briciole di intelligenza pareva svanire come la nebbia mattutina nella valle che ora la vedi e dopo un istante ti sembra di averla solo immaginata, tanto si defila in fretta!

Il giovane pastore vide che il viaggio dell’astro diurno si stava per concludere e cominciò a chiamare il gregge tra grida e insulti e frustando l’aria che tanto, le stupide, non capivano un bell’accidenti di tutto quello che accadeva.

Che problemi avevano loro? Mangiare, dormire, cagare… e lui che provvedeva a tutto: alle cure, alla mungitura, alla scelta degli agnelli da allevare, al cibo, al periodo giusto per portare i maschi.

Giorno e notte in una non vita, per loro e quelle che si permettevano anche di farlo incazzare quando le doveva immandrare o scalciavano durante la mungitura o, peggio ancora, lo tenevano sveglio per tre giorni, tanto belavano, quando veniva il macellaio a prendersi la merce.

Ma te l’immagini! Ripeteva a sua madre. Tutto gli faccio e quelle mi fanno solo incazzare… che animale ingrato!

Giunto, gridando e frustando di fronte all’ovile, quella volta vide un uomo che pareva stesse attendendo il suo arrivo, che se ne stava proprio di fronte alla porta dell’ovile.

Il gregge si fermò a distanza dallo sconosciuto e a nulla valsero gli incitamenti minatori e le flagellazioni per farlo avanzare di un solo passo.

Allora si arrese e chiese allo sconosciuto di spostarsi perché quello era un animale scemo e temeva anche la propria ombra e non avrebbero fatto un passo in più finché lui non si fosse spostato.

L’uomo gli sorrise, incrociando le braccia al petto. Ragazzo, sono qui per proporti una scommessa. E di qui non mi muoverò finché non mi avrai dato ascolto.

Il ragazzo, impettito e curioso, si avvicinò a falcate allo sconosciuto, dimenticandosi il gregge, il tramonto e la mungitura.

Una scommessa significava denaro facile e lui sapeva giocare bene!

Avanti, dite! Proruppe senza troppi preamboli, giungendo di fronte all’ovile. Di che si tratta?

Una volta ho conosciuto tuo nonno. Ne ho ammirato i modi stranamente gentili con cui si rivolgeva alle sue pecore e l’obbedienza dell’animale.

Mio nonno era di un’altra epoca. Commentò, interrompendolo. Oggi se non usi questa! Continuò mostrando il lungo bastone dal quale penzolava un lungo laccio di cuoio. Non ottieni niente con queste bestie. Bestie sono, animali sporchi e puzzolenti e mio nonno ci metteva il doppio del tempo che ci metto io, coi suoi modi, a svolgere tutte le mansioni quotidiane!

Tuo nonno, ragazzo, otteneva il triplo del latte che ottieni tu dalle sue pecore e ne aveva tre volte meno di te! Ribadì lo sconosciuto.

Ma che ne sapete voi! Una volta l’erba c’era e ce n’era tanta e le pecore davano di più perché mangiavano bene, non come adesso che le devo nutrire, spesso, a mangime! Esordì, innervosito il ragazzo.

E comunque – Tagliò corto – Eravate qui a propormi una scommessa no? E allora parlate invece di fantasticare! E gli rivolse uno sguardo determinato e carico di attesa.

Lo sconosciuto accennò un sorriso e si arrese.

D’accordo ragazzo. Volevo provare ad evitarla ma capisco che non c’è modo. La scommessa è questa: vediamo chi dei due riesce a far entrare in minor tempo le pecore in ovile e chi ottiene la maggior produzione di latte.

Tre giorni dura la prova. Tu fai la mungitura del mattino e io quella della sera. Se vinco io mi prendo il tuo gregge e se vinci tu potrai chiedermi tutto quello che vorrai.

Il giovane scoppiò in una sonorissima risata.

Lo sconosciuto doveva essere un vero demente e quello tutto uno scherzo o l’insana follia di una mente malata, così, senza nemmeno rispondere, scostò con uno strattone lo sconosciuto dalla porta dell’ovile e cominciò a chiamare il gregge di radunarsi.

In un lampo si trovò coi piedi che non toccavano più la terra e due dita, sotto la gola, che gli impedivano di respirare.

Gli occhi dello sconosciuto sembravano due braci ardenti e per la prima volta in vita sua il giovane pastore sentì il gelido abbraccio della paura.

Ragazzo, non ti ho chiesto se vuoi farla, la scommessa.

Gli parlò a denti stretti, con le mascelle serrate e le vene del collo pulsanti di collera poi lasciò andare la presa e attese che il giovane riprendesse a respirare.

Con ancora i battiti cardiaci accelerati, ansimante e con un dolore alla gola cosi tenace da impedirgli di sbandierare la sua voce tonante, il giovane, convinto di avere di fronte il demonio in persona, accettò la scommessa sollevando il pollice della mano destra senza guardare il suo interlocutore negli occhi tanto era ancora piegato dal dolore e dal respiro incastrato tra la tosse e le corde vocali.

Costretto dalla paura ad avventurarsi in quella stupida scommessa, appena si fu ripreso iniziò a immandrare il gregge con più frustate alle bestie e grida e mani slanciate ad indicare la via e quelle, più spaventate e disorientate che prendevano tutte le strade meno quella dell’ingresso all’ovile, che si spargevano dintorno come mosche impazzite e belavano e scampanavano tutta la loro incomprensione all’ordine del pastore.

Lo sconosciuto se ne rideva a bocca larga e al giovane pareva di sentire un orrendo ghigno provenire da li dentro, come se vi fosse racchiuso tutto l’inferno!

E passarono minuti di inutili comandi, impartiti con terrore fino a che lo sconosciuto gridò sopra il caos.

Fermati scellerato! Ora lascia fare a me.

Il giovane pastore obbedì senza riserve e si accasciò a terra, stanco e incuriosito dalla sfida. Pensava tra sé e sé che quella sarebbe stata la serata di mungitura più lunga della sua vita e che non aveva mai, nemmeno da infante, faticato cosi tanto per convincere quelle sceme ad entrare in ovile dove peraltro le attendeva un buon pasto a base di ghiotto mangime!

Lo sconosciuto, nel frattempo, si stava avvicinando lentamente al gregge disperso e impaurito, chiamando con gentilezza le signore a raccogliersi di fronte alla porta.

Parlava con loro e le ringraziava perché esse donavano il pane quotidiano all’uomo, perché con dignità sopportavano il dolore e la sofferenza di vedersi togliere la prole, perché comprendevano la piccolezza dell’uomo che non sa quel che fa e perdonavano, obbedivano senza pretese.

E le pecore, stupide, brutte e puzzolenti, si zittirono e lentamente e con circospezione si riunirono di fronte alla porta dell’ovile e allo sconosciuto che con voce pacata le invitava ad entrare e mangiare e chiedeva, ad una ad una, di avere un po’ del suo ottimo latte.

E quelle, ormai convinte, allargavano le zampe e cedevano il candore profumato che serbavano per la prole, al secchio e alle mani aggraziate dello sconosciuto.

Il giovane pastore seguiva ogni mossa, ascoltava ogni parola e si faceva sempre più l’idea che quello o era il demonio o era un pazzo uscito da un manicomio.

Parlare alle pecore!

Lo faceva anche suo nonno ma lui ne aveva sempre riso e mai del tutto in disaccordo con quello che si diceva nel paese.

Este maccu. E’ matto. Dicevano gli altri pastori ma poi, quando avevano bisogno di benedire un gregge o un luogo è dal nonno che venivano, coi cappelli tra le mani e le teste chinate a chiedere aiuto.

E nonno a volte ne schiaffeggiava qualcuno che si presentava troppo tardi per risolvere un malocchio, perché temeva più il vecchio pastore pazzo che l’occhio malvagio!

Lo sconosciuto, nel silenzio più totale delle ospiti, poteva mostrare tre bidoni pieni zeppi di latte ed era già quasi il doppio di quello che avrebbe portato a casa lui.

Lo guardò incredulo e notò qualcosa che la paura non gli aveva fatto vedere prima: dove aveva già visto quello sconosciuto?

C’era qualcosa nei suoi strani occhi, nella forma allungata del suo viso, nella mandibola pronunciata e le orecchie prominenti. Qualcosa che gli ricordava qualcuno.

Lo sconosciuto visitatore si sedette accanto al giovane che, d’istinto, si allontanò di qualche passo, ancora timoroso e questo gesto diede l’input all’estraneo.

Hai visto, stupido ragazzo? Ti sei allontanato, diffidente come una pecora, quando io mi sono avvicinato a te. Lo hai fatto perché mi temi, perché ho usato la forza prima e ti ho sopraffatto, ti ho messo in confusione e disorientato. Ora sai come si sentono le tue pecore quando le disprezzi e le bastoni. Loro non hanno chiesto di essere uno strumento economico. Non hanno chiesto di vivere in un recinto per tutta la loro esistenza, tantomeno di guadagnarsi un pasto perdendo i loro figli. Loro non hanno avuto una scelta ma tu si e hai scelto di fare il pastore. Smettila di trovare le tue colpe negli altri e di versare l’odio che senti per te stesso in chi silenziosamente ti dona la vita ogni giorno. Diventa Uomo e impara che nulla ti è dovuto e nulla ti appartiene qui. Questi animali sono vite quanto te, respirano, si nutrono, dormono, defecano, si ammalano e muoiono come te zuccone. Osserva e impara poiché l’intelligenza non risiede sulla forza delle braccia ma sulla capacità di comprendere e operare la vita e per la vita. La scommessa è finita e ho vinto io. Non mi prenderò il tuo gregge poiché voglio darti un’ultima possibilità ma ricorda che io ti vedo. E adesso svegliati “animale lèggiu!”

Il giovane pastore aprì gli occhi e si trovò muso a muso con una delle sue pecore che lo stava annusando e fece uno scatto all’indietro quando lui si mosse. Ancora confuso si guardò intorno.

La notte era annunciata dalle prime stelle accese su un rosso quasi spento, all’orizzonte e attorno a lui, l’intero gregge stava accovacciato in attesa.

Osservò quella scena e pianse ricordando che quando fiutano un pericolo le pecore si chiudono in cerchio per proteggere i loro cuccioli.